Nel pantano ci troviamo ormai da un anno, dopo l’accettazione dell’iniziativa contro l’immigrazione di massa che vuole stabilire dei contingenti annuali per gli stranieri che esercitano una attività lucrativa in Svizzera, compresi anche i frontalieri. Perché non si è ancora trovata una via d’uscita, perché nonostante le peregrinazioni a Bruxelles non c’è ancora uno spiraglio d’intesa, perché si è creata una singolare situazione tra ambienti economici e politici che assomiglia a quella del famoso barone di Münchhausen che voleva togliersi fuori dal pantano, lui e il suo cavallo, tirandosi per i capelli.


C’è così chi ha fatto una proposta che val la pena di raccontare, non fosse che per un motivo: indica come sono considerati lavoro e lavoratori nell’economia dominante e anche là dove si pretende di insegnare, con pretesa scientifica (università, alte scuole di gestione), ciò che dovrebbe fare l’economia.


Se passa il sistema dei contingenti, come dovrebbe passare se si rispettano volontà popolare e articolo costituzionale e come propone il governo, è chiaro che, d’accordo o no Bruxelles, si deve sapere non solo come fissare i contingenti limitando la manodopera estera ma anche, problema più difficile, come poi distribuire e gestire i contingenti dei permessi di lavoro tra regioni, cantoni, settori d’attività, imprese. Se si considerano la provenienza di quella proposta (Unione democratica di centro, partito dell’antistato e dell’antiburocrazia) e le solite lamentele degli ambienti padronali come cause d’intralcio ai loro affari (regole, burocrazia), alcune condizioni sarebbero essenziali: poca burocrazia, pochi costi, semplicità massima, priorità ai bisogni dell’economia. È già una prima quadratura del cerchio.


Nasce allora la grande trovata: facciamo delle quote di permessi di lavoro che siano negoziabili. Cioè commerciabili. Prima mossa: stabilire un certo numero di permessi di lavoro per tutta la Svizzera per un periodo determinato (magari ottenendo il consenso dell’Unione europea, contro il principio della libera circolazione sottoscritto negli accordi bilaterali). Seconda mossa: distribuire quei permessi alle imprese; distribuzione gratuita, ma con precisi criteri. Ad esempio, prevedendo una diminuzione lineare del 10 per cento degli stranieri, sulla base dei periodi precedenti. Oppure – e qui sta il bello (o l’osceno) – mettendo all’asta i permessi di lavoro. Le imprese lo faranno ovviamente in funzione dei loro bisogni, delle loro previsioni. Il prezzo unitario dei permessi dipenderà dal contingente (dall’offerta) e dai bisogni (la domanda): se è troppo alto, vuol dire che bisogna modificare il contingente generale, se è basso vuol dire che si può fare a meno degli stranieri e si può diminuire il contingente. Ci sarebbe un vantaggio anche per lo Stato, che potrebbe ricavarne delle entrate fiscali (una sorta di Iva sui permessi). Va da sé che se un’impresa non utilizza tutta la manodopera, può venderla ad altra impresa bisognosa. La possibilità di vendere o acquistare delle quote di lavoratori esteri si risolverebbe in un grande vantaggio per la stessa economia, il cui sistema guadagnerebbe finalmente in flessibilità ed efficacia.
Non c’è bisogno di approfonditi commenti. Primo: siamo al mercato degli schiavi, trattabili e spostabili. Secondo: non è solo la mercificazione completa del lavoro, è la cancellazione dell’uomo. Eppure si pensa così, tra politici ed economisti organici.

Pubblicato il 

12.02.15
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