Whistleblowing

Pochi lettori, forse, ricordano il nome e la vicenda di Christoph Meili, che nel 1997, quando lavorava come guardia della grande banca Ubs, salvò dalla distruzione documenti sulle persecuzioni degli ebrei durante la seconda guerra mondiale. E ancor meno saranno coloro che si ricordano del poliziotto Kurt Meier, detto “Meier 19”, che nel 1967 portò alla luce un comportamento criminale all’interno del corpo di polizia di Zurigo. Ambedue sono stati i più famosi whistleblowers (informatori) svizzeri. Ed ambedue sono stati legalmente perseguiti a causa della loro onestà.


Il termine whistleblowing significa letteralmente “soffiare nel fischietto”, ovvero spifferare. E chi spiffera è detto whistleblower. In seguito a quei due casi, ma soprattutto per proteggere i lavoratori che segnalano all’autorità o direttamente all’opinione pubblica casi di corruzione che si verificano nelle aziende, l’ex consigliere nazionale socialista di Basilea, Remo Gysin, presentò nel 2003 una mozione che chiedeva al Governo un apposito progetto di legge. Il Consiglio federale ha quindi messo a punto un disegno di modifica di quella parte del Codice delle obbligazioni che riguarda la “tutela in caso di segnalazione di irregolarità da parte del lavoratore”. Tale proposta verrà discussa in prima lettura dal Consiglio degli Stati il 22 settembre.


Per capire di che cosa si tratti e quale sia la situazione attuale nel diritto vigente, abbiamo chiesto lumi a Luca Cirigliano, segretario centrale dell’Unione sindacale svizzera (Uss) responsabile, tra l’altro, del settore “diritto del lavoro”. «Che vi possano esserci casi di whistleblowing nel nostro Codice delle obbligazioni per ora non è previsto» spiega Cirigliano. «C’è la regola generale per cui il dipendente deve comportarsi verso il suo datore di lavoro con assoluta lealtà». Ma ci sono pure l’interesse pubblico al rispetto della legge e l’etica democratica, che impongono al cittadino di segnalare all’autorità e all’opinione pubblica un grave illecito. In questi casi, «il dipendente che vede o sente cose che non vanno secondo la legge, può e deve, per conformità ad un’idea di ordine pubblico, rivolgersi ai media o, soprattutto, alle autorità. Questo però nella legge non c’è scritto, né esiste una casistica».


In pratica, il lavoratore che segnala illeciti sul posto di lavoro viene a trovarsi confrontato con interessi diversi. Se si rivolge direttamente all’autorità o persino alla stampa, scavalcando il datore di lavoro, viene meno all’obbligo di lealtà e di riservatezza e, scrive nel suo messaggio il Consiglio federale, “può pregiudicare in modo grave gli interessi del datore di lavoro”. Inoltre, “la segnalazione lede la personalità del collaboratore sospettato” e “può essere all’origine di tensioni e conflitti sul posto di lavoro”. Questo vuol dire che il lavoratore che fa whistleblowing può essere colpito da licenziamento, magari diversamente motivato, ma sostanzialmente abusivo. Da qui l’idea di regolamentare il whistleblowing, secondo Cirigliano, «anche per chiarificarlo e pubblicizzarlo verso l’opinione pubblica».


Il contenuto del disegno governativo è però deludente. «Quello che sicuramente si può constatare è che la riforma attuale non è ideale, per due ragioni», riprende Cirigliano. «La prima è che in questo disegno di legge la casistica è limitata e la procedura da seguire è complessa, con una gerarchia molto rigida di uffici e di media a cui rivolgersi. C’è il pericolo che, uscendo da questo percorso molto stretto, il dipendente venga a trovarsi in una posizione peggiore di quella che ha oggi in assenza di una regola precisa e quindi con una certa libertà dei tribunali di interpretare il caso. La seconda problematica, che noi come Unione sindacale troviamo molto grave, è che pur essendo molto diffuse, sia l’idea positiva del whistleblowing, sia la volontà di dargli un valore e di legalizzarlo, non trovino riscontro nella protezione giuridica effettiva».


Questo succede perché, prosegue Cirigliano, un dipendente «può fare una segnalazione in modo perfetto, seguendo alla lettera la nuova norma, ma alla fine ugualmente il datore di lavoro lo licenzia, mettendo in conto di dovergli pagare da uno a sei mesi di indennizzo. Se si tratta, per esempio, di una grande banca, non so proprio che paura possa farle versare tre volte ottomila franchi (perché di solito i giudici riconoscono tre mensilità quale indennizzo in caso di licenziamento abusivo). Quindi, manca una reale protezione di chi denuncia gravi violazioni della legge. Anche perché il denunciante abusivamente licenziato, e riconosciuto come tale da un tribunale, non deve essere reinserito nel posto di lavoro ma ha soltanto diritto ad un indennizzo minimale».
Ma non vale il principio per cui l’interesse generale della società è comunque superiore all’interesse del singolo datore di lavoro? Certo, si potrebbe farlo valere, è la risposta di Cirigliano, «quale principio teorico, e anche ideologico, che sta dietro questo disegno di legge. Si è però scelto di mantenere l’attuale protezione contro i licenziamenti abusivi, che è purtroppo ad un basso livello». Il previsto indennizzo da uno a sei mesi di salario «francamente non è un vero deterrente contro i datori di lavoro. Specialmente quando sono in gioco grossi interessi economici ed una certa animosità, perché in fin dei conti il lavoratore che fa whistleblowing non è più ben visto e probabilmente avrà pure grande difficoltà a trovare un nuovo posto di lavoro».


L’Uss ha denunciato all’Organizzazione internazionale del lavoro questa situazione di insufficiente protezione contro i licenziamenti abusivi in Svizzera. E quanto alla riforma in atto, dice Cirigliano, diversi ambienti interessati – come le associazioni di vittime di licenziamenti abusivi, ambienti accademici e Transparency International (che si occupa di lotta alla corruzione) – non sono affatto contenti di questa mancanza di protezione dei whistleblowers.

Pubblicato il 

10.09.14

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