L'editoriale

Per le vittime del lavoro la Giustizia è spesso, troppo spesso, soltanto un miraggio. Anche quando appare evidente la responsabilità di terzi, si tende a ridurre l’evento a una “tragica fatalità” e quasi mai viene individuato un colpevole. Non perché questo non ci sia mai, ma essenzialmente per l’inadeguatezza dei mezzi di contrasto ai crimini che si consumano sui luoghi di lavoro. A livello di legge, di tribunali, di magistrati e di polizia.


Un esempio paradigmatico è l’assoluzione pronunciata nei giorni scorsi dalla Corte di appello e di revisione penale ticinese nei confronti degli imputati al processo per l’incidente avvenuto sul cantiere della galleria Alptransit di Sigirino nel 2010, che è costato la vita a Pietro Mirabelli, operaio italiano 54enne sposato con tre figli, morto ammazzato sotto una placca di quattro quintali di roccia staccatasi dalla montagna che un collega stava perforando. Affermando in sostanza che la morte se l’è cercata da solo, il giudice ha inferto un nuovo durissimo colpo ai suoi famigliari e suscitato incredulità e perplessità tra le persone che ben conoscono il contesto in cui quel dramma si è consumato. Troppo facile “condannare” la vittima che non può più difendersi, che non può più fornire la sua versione dei fatti, verrebbe da dire.


Ma queste considerazioni non hanno alcun valore dal punto di vista del diritto, che giustamente consente di condannare una persona solo in presenza di prove certe sulle circostanze e sull’esistenza di un chiaro nesso causale tra il suo comportamento e il danno procurato. Non vogliamo e non possiamo qui giudicare la sentenza, che si può combattere solo per via giudiziaria ricorrendo al Tribunale federale (i legali della famiglia stanno valutando il da farsi), ma non possiamo nemmeno sottacere che essa è viziata da un’inchiesta condotta in modo dilettantesco: nessun rilevamento sul luogo del dramma (nemmeno quanto si fa in un banale incidente stradale senza feriti), nessun sequestro del cantiere, nessuna analisi della scatola nera montata sulla macchina perforatrice che era in azione, una sola foto scattata quindici giorni dopo in una scena ricostruita. Sono del resto gli stessi giudici della Corte d’appello (come era già avvenuto in prima istanza) a evidenziare «le importanti e gravi lacune istruttorie» che «non hanno consentito di accertare alcunché in merito alle cause del distacco della roccia e alla dinamica esatta». Questo è sicuramente un caso estremo fortemente condizionato dall’incapacità del magistrato che ha curato l’inchiesta nelle prime fasi, ma è spia di un problema più generale della giustizia.

 

Pur accettando l’idea che la verità storica e la verità giudiziaria non sempre coincidano, è evidente che le vittime di reati sui luoghi di lavoro in questo paese (ma non solo) non godono delle sufficienti protezioni: a livello di legge, per esempio con termini di prescrizione assolutamente sfavorevoli (si pensi alle vittime dell’amianto); a livello di tribunali, dove le norme vengono interpretate in maniera restrittiva e a garanzia più degli imputati che delle vittime; a livello di magistratura inquirente e di polizia giudiziaria, che non sempre operano con la dovuta rapidità e professionalità (come nel caso di Pietro Mirabelli).


La lotta ai crimini d’impresa necessiterebbe di un cambio di passo proprio a partire da quest’ultimo livello: al di là della competenza delle persone e della rapidità d’intervento di fronte alle tragedie, servirebbero una magistratura e un apparato di polizia capaci di intercettare e punire quei reati piccoli e grandi che sovente precedono gli incidenti sul lavoro o le malattie professionali. Ad esempio: se un’estetista viene costretta a usare prodotti cancerogeni, il suo datore di lavoro andrebbe fermato prima che lei si ammali di tumore; se un autista viene costretto a guidare per 12 ore al giorno, il titolare della sua ditta andrebbe perseguito prima che succeda un incidente.


Per questo va per esempio intensificata la collaborazione con le organizzazioni sindacali presenti sui luoghi di lavoro (come Unia Ticino e il Ministero pubblico ticinese fanno da anni, anche con risultati importanti), ma servono anche investimenti in forze e mezzi. Una condizione indispensabile perché la giustizia dia il suo dovuto contributo alla tutela della salute e della dignità delle persone in un mondo del lavoro che tende sempre di più a cancellare diritti, garanzie e potere contrattuale.

Pubblicato il 

14.06.18
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