Papa Francesco ha accolto pochi giorni fa a Lesbo 12 rifugiati siriani, e li ha portati a Roma. Ancora 12 profughi erano stati protagonisti il 24 marzo, nella messa del giovedì santo, del tradizionale rito della lavanda dei piedi: in un evidente e certamente voluto e riproposto simbolismo apostolico, quasi a voler designare e indicare con forza e inequivocabilmente i veri e propri “inviati” del Vicario di Cristo e del suo messaggio di solidarietà e accoglienza. Apostolo, cioè inviato di Cristo, o Rasul, messaggero nell’Islam (Maometto è il messaggero, l’apostolo di Allah): davvero nessuna differenza nel fatto che siano cristiani o musulmani i sommersi e i salvati, accomunati come sono nella loro essenza di vittime e insieme nel loro essere pietra di scandalo per ogni credente nell’umanità e nella giustizia.


I sommersi e i salvati è anche il titolo di un saggio di Primo Levi, l’ultimo da lui scritto prima di darsi la morte, in cui egli descrive e analizza l’universo concentrazionario di cui ebbe tragica esperienza diretta negli anni bui della seconda guerra mondiale. Così scrive Primo Levi in quel suo testamento spirituale: «E c’è un’altra vergogna più vasta, la vergogna del mondo. È stato detto memorabilmente da John Donne, e citato innumerevoli volte, a proposito e no, che “nessun uomo è un’isola”, e che ogni campana di morte suona per ognuno. Eppure c’è chi davanti alla colpa altrui, o alla propria, volge le spalle, così da non vederla e non sentirsene toccato: così hanno fatto la maggior parte dei tedeschi nei dodici anni hitleriani, nell’illusione che il non vedere fosse un non sapere, e che il non sapere li alleviasse dalla loro quota di complicità o di connivenza. Ma a noi lo schermo dell’ignoranza voluta, il “partial shelter” di T. S. Eliot, è stato negato: non abbiamo potuto non vedere. Il mare di dolore, passato e presente, ci circondava, ed il suo livello è salito di anno in anno fino quasi a sommergerci. Era inutile chiudere gli occhi o volgergli le spalle, perché era tutto intorno, in ogni direzione fino all’orizzonte.
Non ci era possibile, nè abbiamo voluto, essere isole; i giusti fra noi, non più nè meno numerosi che in qualsiasi altro gruppo umano, hanno provato rimorso, vergogna, dolore insomma, per la colpa che altri e non loro avevano commessa, ed in cui si sono sentiti coinvolti, perché sentivano che quanto era avvenuto intorno a loro, ed in loro presenza, e in loro, era irrevocabile.
Non avrebbe potuto essere lavato mai più; avrebbe dimostrato che l’uomo, il genere umano, noi insomma, eravamo potenzialmente capaci di costruire una mole infinita di dolore; e che il dolore è la sola forza che si crei dal nulla, senza spesa e senza fatica.»


I salvati da papa Francesco; i sommersi nel “mare di dolore” che ci sta intorno, tutto attorno a noi. Come non leggere in queste terribili e insieme bellissime parole un profetico sguardo verso il futuro, questo nostro presente così tragico e così bisognoso di salvezza.

Pubblicato il 

20.04.16

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