Mondiali 2014

Quando si pensa al Brasile, tra le prime immagini che vengono alla mente c’è la maglia oro e verde della Seleção e con lei tutti i fenomeni che ne hanno fatto parte. I brasiliani, grandi amanti del calcio, ospiteranno i mondiali 2014, ma fino a che punto sono disposti ad accettare soprusi e ingiustizie in nome del pallone? A pochi giorni dal calcio d’inizio, i retroscena di "Brazil 2014".

 

Nel 2007, quando si è deciso che i mondiali 2014 si sarebbero giocati in Brasile, l’allora presidente Lula da Silva aveva appena vinto le elezioni per il secondo mandato, l’economia del paese andava bene e nulla sembrava impossibile, al punto che il paese decise di accogliere anche le Olimpiadi nel 2016. La Fifa chiedeva 8 stadi per il 2014, Lula si è invece impegnato a portare la competizione in 12 città: nella patria del "futebol" si volevano fare le cose in grande, migliorare le infrastrutture, addirittura si è parlato di un treno ad alta velocità tra Rio de Janeiro e São Paulo. Le cose nel 2014 stanno un po’ diversamente: l’economia del paese ha subito un brusco arresto nel 2013 e i brasiliani adoratori del calcio sono diventati ostili ai mondiali. L’attuale presidente Dilma Rousseff (Partito dei lavoratori, Pt), che si ripresenterà alle elezioni in ottobre, anche se resta la favorita è in perdita di consensi.


Perché questa coppa del mondo non è accolta con l’entusiasmo che ci si aspettava dalla "patria del pallone"? Per una serie di motivi che hanno rovinato il clima di festa e speranza che avrebbe dovuto circondare quest’evento e hanno fatto arrabbiare molti brasiliani, che in occasione della Coppa delle confederazioni (organizzata nell’estate 2013 come "vetrina" a un anno dai mondiali) sono scesi nelle strade per protestare e continuano a farlo.
Innanzitutto i costi spropositati di questa manifestazione: da un preventivo iniziale di circa 6 miliardi di franchi, si è arrivati ad una spesa stimata attorno ai 14 miliardi (secondo le stime ufficiali, le cifre reali potrebbero essere ben più alte), ma di tutte le infrastrutture previste neanche l’ombra: si è investito tutto negli stadi, niente treni ad alta velocità né nulla di simile per la coppa del mondo più cara nella storia del calcio. Se da un lato si è speso più del doppio del previsto per costruire stadi che non saranno mai più riempiti di spettatori dopo i mondiali, dall’altro buona parte della popolazione brasiliana vive in povertà, gli ospedali pubblici sono scadenti e l’accesso all’istruzione non è garantito a tutti in egual misura (vedi articolo a lato). Il problema però, purtroppo, non è "solo" questo.


Per far spazio ai nuovi stadi, ai posteggi, alle strade e "abbellire" i quartieri per i mondiali e le Olimpiadi, intere favelas sono state sgomberate con la forza ed eliminate (e altre subiranno la stessa sorte in vista delle olimpiadi del 2016). Sono state eseguite vere e proprie espulsioni forzate da parte dell’esercito, in piena violazione dei diritti umani. Si calcola che siano tra 150.000 e 170.000 le persone cacciate dalle proprie case, un pretesto anche per "rivalorizzare i quartieri", come denuncia Solidar suisse (Soccorso operaio svizzero) sul suo sito internet(www.solidarsuisse.ch/brazil-fr.html), che a paragone cita i dati dei mondiali in Sudafrica del 2010, dove sono state eseguite circa 20.000 espulsioni.


Tuttavia il diritto all’alloggio è iscritto nella Dichiarazione universale dei diritti umani, e anche se questo non vuol dire che sia impossibile sgomberare le favelas (per esempio per dei progetti di sviluppo urbano assolutamente necessari), le persone toccate, anche quelle che non possiedono un contratto per l’appartamento nel quale vivono, hanno diritto a esser consultate e informate, a formulare delle proposte alternative per rendere più sopportabile lo spostamento coatto e, secondo l’articolo 6 della Costituzione brasiliana, hanno diritto a un indennizzo. Sta infatti a loro la scelta tra un indennizzo finanziario o un alloggio sostitutivo in un altro luogo.
Nulla di tutto ciò è stato rispettato per gli sgomberi dovuti al mondiale e alle olimpiadi: i rappresentanti del Governo hanno semplicemente informato le famiglie che avrebbero dovuto lasciare la loro casa e trasferirsi a decine di chilometri da dove vivevano, in estrema periferia, dove l’accesso alla sanità e alle scuole spesso non è possibile e i mezzi di trasporto pubblici sono carenti o inesistenti (ciò che ha spesso implicato la perdita del posto di lavoro vista l’impossibilità di raggiungerlo). Le indennità versate sono molto basse (dell’ordine di 8.000 franchi) e insufficienti per trovare un altro alloggio nelle vicinanze, ma chi si oppone allo sgombero è semplicemente evacuato dalla polizia o si vede demolire la casa senza preavviso.


Altro aspetto che ha fatto arrabbiare parecchie persone: gli sponsor del mondiale vogliono imporre un diritto di vendita esclusivo nelle zone attorno agli stadi, a scapito dei molti venditori di strada che fino a ieri si guadagnavano da vivere proprio in quelle zone e che si sono visti ritirare o non rinnovare la licenza, oppure hanno dovuto sgomberare per lasciar posto ai cantieri. «Il loro confinamento alle periferie delle città minaccia le basi stesse della loro esistenza. Fino a 300.000 persone potrebbero essere toccate da questa politica», denuncia ancora Solidar suisse, che chiede alla Fifa di modificare la propria politica in materia di licenze e di pretendere che le autorità locali instaurino un dialogo con le organizzazioni dei venditori di strada, per trovare delle soluzioni adeguate per il commercio locale.


La stessa organizzazione chiede alla Fifa anche di vigilare sul rispetto dei diritti del lavoro e sul versamento di salari decenti, cercando il dialogo con i sindacati e garantendo il rispetto delle norme dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) e della legislazione brasiliana. Cosa che ancora una volta per "Brazil 2014" non è stata proprio la prassi: dal 2011 ci sono stati infatti diversi scioperi sui cantieri degli stadi. Scioperi che se da un lato hanno portato ad un miglioramento della sicurezza nella maggior parte dei cantieri, non sono invece riusciti a far passare le principali rivendicazioni sindacali quali salari che garantiscano un’esistenza degna, vitto e alloggio decenti (uno sciopero si era infatti iniziato dopo che agli operai era stato servito del cibo avariato), assicurazione malattia per gli operai e le loro famiglie. Se secondo uno studio dell’Istituto intersindacale di studi socio-economici una famiglia di 4 persone in Brasile necessita di almeno 2.200 reais per vivere dignitosamente, nel cantiere dello stadio Fonte Nova a Salvador, ad esempio, un operaio qualificato ne riceve 1.070, mentre un manovale 680. Ma lo sfruttamento non si ferma ai cantieri degli stadi o delle infrastrutture.


Ciliegina sulla torta: di fronte ai costi esorbitanti che il Brasile deve e dovrà sostenere per l’organizzazione della coppa del mondo, la Fifa beneficia d’ufficio di un esonero fiscale. La perdita per il paese ospitante è valutata attorno ai 680 milioni di dollari (circa 611 milioni di franchi). Una mancata entrata che sarà tanto più importante quando i mondiali saranno finiti e il Governo, per far fronte alle spese esorbitanti da esso generate, si troverà costretto a tagliare fondi e, molto probabilmente, a farne le spese saranno nuovamente l’educazione e la sanità, già molto carenti e criticate.


«La gente protesta non solo per i mondiali, i problemi c’erano già prima, solo che ora i riflettori di tutto il mondo sono puntati sul Brasile per via della coppa e allora se ne parla», spiega Daniela, una brasiliana che vive da alcuni anni in Ticino. «Le proteste degli indios per esempio sono legate a un progetto di centrale idroelettrica in Amazzonia, non solo al fatto che siano stati disboscati diversi ettari di foresta per costruire lo stadio "Arena Amazonia" a Manaus».


Daniela in Brasile ci è cresciuta, ci ha cresciuto un figlio e torna regolarmente per lavorare come volontaria ad alcuni progetti a favore dei bambini di strada. Viene da una famiglia in cui l’educazione riveste un ruolo importante: «Mia nonna era insegnante, mia madre anche e automaticamente anche mia sorella ed io siamo state coinvolte in questo mondo», spiega, svelandoci il suo sogno di aprire una scuola e un centro culturale per dare un’alternativa ai bambini di strada: «Mi fa male quando i bambini che ho visto nascere e crescere finiscono in strada e nella criminalità, ma quelli oramai sono difficili da recuperare, il mio obiettivo è evitare che altri finiscano così, dando loro la possibilità di ricevere un’educazione già da piccolissimi, perché la scuola pubblica nel mio paese non funziona per niente», racconta con le lacrime agli occhi.


Il Brasile descritto da Daniela non ha molto a che vedere con la samba, la fiesta e il carnevale. Ci parla di un Brasile triste e corrotto, dove niente funziona e i meno ricchi sono quelli che ne pagano le conseguenze, spesso spinti dal sistema stesso ad abbracciare la via del crimine. «Il Governo dà un contentino al popolo per tenerlo tranquillo, ma non risolve i problemi: scuole e ospedali non funzionano, i mezzi di trasporto nemmeno, il crimine organizzato è più organizzato del Governo e trova quindi l’appoggio di una parte della popolazione. Non ci sono soldi per niente, ma per gli stadi sì. È un controsenso».


Secondo lei in Brasile i servizi pubblici non funzionano perché c’è un interesse a far sì che la povera gente, che non può permettersi di pagare i servizi privati, sia più vulnerabile e ricattabile: «Ad esempio – spiega – se arrivo al pronto soccorso pubblico con mia madre in braccio che sta male, ho altissime probabilità che mi sia detto di mettermi in fila e dopo ore d’attesa io venga rimandata a casa perché il medico non c’è. Se invece porto mia madre che sta male da un narco-trafficante, quello va all’ospedale a prendermi un dottore e me lo porta a casa. Così quando la polizia arriva nella favela a cercare il narco-trafficante è la popolazione stessa che lo protegge e lo nasconde: è comprensibile».


Con orgoglio ci mostra le foto di un terreno che ha comprato e sul quale sogna di costruire una scuola e un centro culturale per togliere i bambini dalla strada «e continuare così l’opera iniziata da mia nonna, mi manca solo qualcuno che mi aiuti e mi sostenga nel portare avanti questo progetto, perché il Governo brasiliano per ora mi sta solo mettendo i bastoni tra le ruote».

 

Pubblicato il 

05.06.14

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