Salute

«Il cancro è sempre di più una malattia dei poveri»

Intervista all’oncologo Franco Cavalli, appena insignito di un prestigioso premio alla carriera. La sua vita d’impegno totale nella ricerca sui tumori e alcune riflessioni sui fattori sociali della malattia

Lo scorso 7 aprile a San Diego (California), l’AACR, l’Associazione americana per la ricerca sul cancro (la più importante organizzazione a livello mondiale in questo campo) ha conferito all’oncologo ticinese Franco Cavalli, e per la prima volta a uno svizzero, il suo prestigioso premio alla carriera. La cerimonia di premiazione si è svolta in apertura del congresso annuale, davanti al quale Cavalli ha tenuto una lezione magistrale in cui ha illustrato i risultati delle sue ricerche e la sua visione sul futuro della lotta al cancro. Lo abbiamo intervistato.

 

Professor Cavalli, come ha accolto la notizia del conferimento di questo prestigioso riconoscimento?

Non ci contavo di ricevere un riconoscimento del genere, anche se ero venuto a sapere che la cosa era in discussione. Mi ha fatto naturalmente molto piacere, anche perché nelle motivazioni si fa ampio riferimento alla creazione, partendo da zero, dell’Istituto oncologico della Svizzera italiana (IOSI) e l’Istituto oncologico di ricerca di Bellinzona (IOR), cui tengo molto e che sono il simbolo di un Ticino in cui si fanno buone cose.

 

Come è arrivato all’oncologia?

Come studente volevo diventare psichiatra e quindi iniziai questa formazione, anche attratto dall’idea dell’antipsichiatria che si affermava in quegli anni, in particolare dalla rivoluzione di Franco Basaglia [psichiatra e neurologo italiano, innovatore nel campo della salute mentale e ispiratore della legge che porta il suo nome con cui l’Italia sancì la chiusura dei manicomi in Italia, ndr], che avevo conosciuto e la cui esperienza volevo replicare qui in Ticino. Ma dopo 3 anni, mi resi conto che in questa disciplina manca quel lato strettamente scientifico che è parte della mia personalità. Dunque, seguendo anche i consigli del professor Kurt Brunner (fratello della quasi consigliera federale socialista Lilian Uchtenhagen, medico di grande carisma che conobbi durante la formazione in medicina interna e mio mentore), capii che l’oncologia era la mia strada. Perché il cancro è al tempo stesso una malattia sociale, per come viene vissuta e per il fatto che molte cause sono legate alle condizioni di vita e ambientali, e una malattia che necessita di un approccio scientifico.

 

Cosa era il cancro e cosa è cambiato nel corso dei decenni dal punto di vista della diffusione, dell’individuazione e dei trattamenti del cancro?

Fare una valutazione generale non è possibile, perché il cancro è tante malattie molto diverse tra loro. Si può però dire che quando iniziai, nel 1972-73, ne sapevamo molto molto meno di oggi. Per certi tipi di tumore i risultati erano scarsi: con il cancro testicolare, che colpisce soprattutto i giovani, morivano tutti, mentre oggi praticamente tutti guariscono; di tumori al seno se ne guariva 1 su 5, mentre oggi siamo a quasi 4 su 5. Ci sono poi altre patologie tumorali per cui è cambiato relativamente poco. In quegli anni regnava entusiasmo perché c’erano le prime guarigioni grazie alla chemioterapia, nata dopo la Seconda guerra mondiale in circostanze un po’ casuali come prodotto della ricerca bellica americana. Con l’illusione di un giorno guarire tutti, si facevano però cure sempre più pesanti e massacranti e ci si rese conto che c’era un limite oltre cui non si poteva andare, perché la chemioterapia, scoperta come metodo per ammazzare le cellule che si dividono in fretta, non serviva a nulla contro i tanti tumori in cui le cellule si dividono lentamente. Fu soprattutto il personale infermieristico a segnalare che troppi pazienti pativano le pesanti conseguenze della terapia senza trarre alcun beneficio. Iniziò dunque una fase in cui si prestava maggiore attenzione alla qualità di vita e parallelamente si sviluppavano nuove terapie più “intelligenti” della chemioterapia (che uccide tutte le cellule indistintamente) come l’immunoterapia (un metodo per scatenare le nostre difese contro il cancro) che per quarant’anni è stata una delusione ma che dall’inizio di questo secolo dà grossi successi e oggi costituisce una delle principali speranze.

 

Perché ci si ammala di cancro? In che misura si tratta di casualità rispettivamente conseguenza di uno stile di vita o di fattori ambientali?

Si calcola che se potessimo evitare tutti i fattori di rischio possibili legati all’ambiente o a uno stile di vita sbagliato, eviteremmo circa il 40 per cento di tutti i tumori. Circa il 5-6% dei casi è invece legato a predisposizioni genetiche, mentre nella metà dei casi il cancro insorge casualmente, come conseguenza di una mutazione nell’ambito del processo di riproduzione cellulare. Un evento naturale che è alla base della vita e che porta alla produzione di cellule difettate, che di regola il nostro sistema di autodifesa è in grado di eliminare ma che a volte (quando il difetto è troppo lieve rispetto alle cellule normali per essere intercettato) diventa immortale e inizia a moltiplicarsi all’infinito facendo insorgere e sviluppare il cancro.

 

Si prevede che il cancro diventerà la prima causa di morte nel mondo superando le malattie cardiovascolari. Come si spiega, tenuto conto dei progressi terapeutici?

Nei paesi ricchi i casi aumentano relativamente poco, in proporzione con l’allungamento dell’aspettativa di vita. Il grosso aumento lo si registra soprattutto nei paesi poveri, dove non c’è né prevenzione né possibilità di diagnosi precoce e dove le condizioni ambientali sono peggiori e dilagano le infezioni croniche. Ma il fatto che tra 20-30 anni diventerà la principale causa di morte a livello mondiale (in molte regioni lo è già) è anche dovuto ai progressi conseguiti contro le malattie cardiovascolari, molto più significativi di quelli contro il cancro.

 

Sappiamo che l’esposizione professionale a determinate sostanze (si pensi all’amianto o alla polvere del legno) può causare il cancro. In che misura esistono altri nessi causali tra il lavoro e le condizioni di lavoro e questa malattia?

Va detto innanzitutto che i fattori tossici come polveri, coloranti, benzine e altre sostanze sono in parte conosciuti ma in parte no, soprattutto se l’impatto non è così forte (come nel caso dell’amianto e, un po’ meno, del fumo e dell’alcol) e dunque è difficilmente misurabile. C’è poi lo stile di vita generale. Nella nostra realtà, è abbastanza chiaro che i fattori sociali giocano un ruolo molto importante sia nell’insorgenza dei tumori sia per i risultati delle cure. Si calcola che in Europa 1 decesso su 3 per cancro tra gli uomini e 1 su 6 tra le donne è dovuto al fatto che i pazienti appartengono a una classe sociale sfavorita. Questo per varie ragioni: sono meno informati e dunque fumano di più, svolgono mestieri più usuranti, conducono uno stile di vita meno sano (cattiva alimentazione, poco sport) spesso proprio a causa del tipo di lavoro che fanno. Nel Nord dell’Inghilterra e in Scozia per esempio ci sono delle zone operaie dove la differenza in aspettativa di vita tra poveri è ricchi è come tra noi e il Terzo mondo, dell’ordine di 15-20 anni.

 

C’è quindi un potenziale di prevenzione che non viene sfruttato?

Sicuramente. Questo perché gli investimenti nel settore del cancro destinati alla prevenzione sono meno dell’1 per cento e poco di più nella diagnosi precoce. Il grosso viene speso nelle terapie, perché dietro c’è l’industria farmaceutica che ci guadagna. E gli Stati, che dovrebbero essere interessati a questi aspetti, fanno relativamente poco: complice la mentalità, soprattutto occidentale, di avere risultati a breve scadenza, la prevenzione è poco “interessante” perché i risultati non si vedono tra un’elezione e l’altra, ma a distanza di decenni.

 

Come si potrebbe riassumere il suo contributo alla ricerca sul cancro?

Ci sono state varie fasi. Nei primi anni di formazione a Berna mi sono occupato di leucemie, tumore al seno e nuovi farmaci, campi di ricerca su cui avevo lavorato all’estero. Poi, tornato in Ticino, dove non c’era nessuno che faceva ricerca, mi sono occupato in un primo tempo dello studio dei nuovi farmaci. Una disciplina che presuppone di controllare i pazienti molto da vicino e per questo ottenni dei letti ospedalieri destinati ai malati oncologici (cosa che era impossibile nei centri universitari, dove i baroni della medicina interna non lo consentivano) che mi permisero di fare questo lavoro di osservazione e valutazione. Ma in seguito la mia ricerca si è concentrata soprattutto sui linfomi maligni, tema cui dedichiamo dal 1981 la Conferenza internazionale di Lugano (il principale evento a livello mondiale in questo settore) e che ormai mi occupa da oltre trent’anni.

 

Come vede il futuro della ricerca e quali sono le priorità?

C’è innanzitutto un aspetto di carattere geopolitico: anche da noi i tumori maligni diventano sempre di più malattie della parte più povera della società, ma questo vale soprattutto a livello mondiale. Si calcola che tra il 2020 e il 2040 nei paesi poveri vi sarà un aumento del 100 per cento della mortalità per cancro, sia per fattori ambientali sia per mancanza di prevenzione, di diagnosi precoce e di terapie. Basti pensare che metà dei paesi dell’Africa non hanno nemmeno una macchina per la radioterapia, mentre in Svizzera abbiamo 35 centri. È dunque necessario che a livello politico globale si prenda coscienza di questo. Purtroppo finora i vari G20 e G7 si sono sempre rifiutati di occuparsene. Il nostro dovere come ricercatori e medici è di costringere i politici a farlo. E per quanto riguarda le terapie, bisognerebbe innanzitutto obbligare le case farmaceutiche a produrre farmaci accessibili al terzo mondo, dove oggi solo l’1% della popolazione se li può permettere. In generale, ritengo poi che si debba investire molto di più nella prevenzione e nella diagnosi precoce. Proprio su quest’ultimo fronte, ci troviamo alla vigilia di un grosso cambiamento: nel giro di qualche anno avremo una serie di test del sangue (su cui stiamo lavorando anche qui in Ticino) che consentiranno di individuare la possibile presenza di un tumore da qualche parte. Ritengo dunque che si debba investire di più in questa direzione che in un nuovo farmaco che funziona un poco meglio del precedente ma che costa dieci volte tanto.

Pubblicato il

29.04.2024 09:20
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