Un servizio del Telegiornale cercava di rendere l’idea del successo di popolo della candidata alle presidenziali francesi del Front national, Marine Le Pen, lasciando esprimere alcuni ospiti attorno a un tavolo: al lepenista convinto sin dagli anni Ottanta, si sono aggiunti, convinti di fresco, un socialista schifato, nonostante continui a credere nelle sue idee; una sindacalista del sindacato di sinistra (Cgt) delusa dall’inefficienza politica dei suoi; un repubblicano, in fuga dalla confusione nel suo partito. Questo genere di aggregazione non è solo francese, avviene in tutta Europa (e negli Stati Uniti). Gli si dà un denominatore comune con il termine “populismo”.


Populismo è una ideologia? Forse. Appare comunque facile la sua combinazione con ideologie che hanno un contenuto più pesante, come il nazionalismo o il socialismo. Anche se, a differenza di queste, non dà risposte ai grandi problemi. Si accontenta di dividere la società in due gruppi: da un lato il popolo, naturalmente onesto e virtuoso; d’altro lato le élites che hanno confiscato la sovranità che appartiene di diritto al primo.
Il populismo si batte dunque per ristabilire la sovranità del popolo. Diventa una strategia per quei grandi attori dell’odierna scena politica europea (Svizzera compresa) che vanno per la maggiore e che si sentono i veri e unici portavoce del popolo, uomini e donne provvidenziali.


Chi è membro del popolo al quale si rivolgono i populisti? Per gli uni il popolo è costituito dalla nazione e s’oppone allo straniero, è pure ostile all’apertura della società che si manifesta con l’integrazione europea o con l’immigrazione o l’afflusso di islamici. Per altri ciò che distingue il popolo dalle élites è l’appartenenza di classe. Forse per questi parametri diversi anche i populisti sono di destra o di sinistra. Con una pretesa: il popolo è omogeneo, ha solo perso i punti di riferimento, le relazioni sociali cui era abituato.


Non è assurdo che socialisti, sindacalisti, classe media, emigrano verso queste formazioni populiste? Forse si possono indicare tre motivazioni tra loro connesse. L’una culturale, dovuta al venir meno di quella che si riteneva una propria identità sociale e a uno svilimento e deprezzamento dei valori del proprio paese o del territorio in cui si è nati e cresciuti, minacciati dall’esterno (ciò che accresce incertezza o paura). Una seconda è dovuta al tipo di economia impostosi dagli anni 80: globalizzazione, diseguaglianze, scombussolamenti nel lavoro ridotto a merce e competitività, mortificazione del reddito da lavoro, precarietà, impoverimento, hanno generato una situazione (dimostrata con uno studio fondamentale da un economista americano, Moses Shayo) per cui si sono moltiplicate le persone che fondano sempre meno la propria identità sociale nel proprio statuto economico e sociale, sostituendola con l’unica certa, l’identità nazionale (il nazionalismo). Una terza si riscontra nel fatto che i partiti di sinistra (soprattutto se al potere) hanno riorientato il loro discorso, occupandosi poco delle priorità degli ambienti popolari per tentare di sedurre un elettorato più vasto, in un clima culturale molto influenzato dalle idee liberiste a partire dagli anni ’80. Hanno così voluto apparire mercantilmente affidabili, perdendosi, o tecnocrati per dimostrarsi altrettanto bravi nella gestione degli affari pubblici.


Siamo alla vigilia di importanti elezioni. Può darsi che le altre forze politiche di centro o di sinistra riescano ad essere più forti dei partiti populisti. Tuttavia non si può negare che coloro che definiamo populisti rappresentano idee molto radicate nelle nostre società e che quindi li troveremo a lungo sulla scena politica. Servissero almeno come pungolo!

Pubblicato il 

08.02.17
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