Migranti

Sono eritrei, sono uomini giovani, soli e neri. Non fanno pena, non suscitano pathos collettivo e così diventano i profughi dell’ultima categoria. C’è però chi pensa anche a loro. Cronaca di una giornata di solidarietà umana a Milano con un gruppo di militanti del Macao, centro sociale autogestito, che ogni giorno a Porta Venezia distribuisce generi di prima necessità.

 

Come si fa a chiedere a un ragazzo di 23 anni di descriverci il suo viaggio dall’Eritrea all’Italia? Johanes avrebbe anche il diritto di chiedersi “se ci siamo o ci facciamo”. Non le abbiamo forse viste le immagini nei vari telegiornali dei corpi che galleggiano in mare? Se la vogliamo dire poeticamente con Erri De Luca possiamo recitare anche noi il «mare nostro che non sei nei cieli (...) ti abbiamo seminato di annegati più di qualunque età delle tempeste».

 

Johanes è educato, non sorride perché non ne ha motivo, ed è disponibile a raccontare ciò che riesce a dire: ciò che ha passato è talmente feroce, doloroso e intimo che in alcuni casi non esistono parole capaci di rendere lontanamente l’idea.

 

Quando lo incontriamo, il giovane è da cinque giorni in Italia, dopo un viaggio infernale durato l’infinità di tre anni. Johanes si definisce comunque «fortunato» perché lui non ha visto le foto di quei cadaveri galleggianti, gli ha visti da testimone. Era lì accanto a loro, avrebbe potuto essere uno di loro. È «fortunato» di avercela fatta nella stiva del peschereccio ripiegato su se stesso, con altre 300 persone, una sopra l’altra.

Johanes ce l’ha fatta, ma per arrivare in Europa non c’è stato solo un mare da attraversare, prima si è confrontato con l’insidia del deserto in un lungo e pericoloso tragitto per giungere in Libia da dove ci si imbarca.

 

Lungo e costoso. Johanes, che ha lasciato casa e famiglia a 20 anni, ha speso «fra i 3 e i 4 mila dollari per il percorso. Soldi che non comprendono il mangiare, ma solo le somme da versare ai passeur per il trasporto. Io quei soldi non li avevo, per cui mi fermavo in un posto, lavoravo, e quando avevo racimolato un po’ di denaro, ripartivo» spiega.

Prima i passatori del Sudan e poi quelli della Libia, che si è rivelata la parte più difficile del suo viaggio. «Le persone in Libia non sono esseri umani, ma animali. Se qualcuno nell’attraversata del deserto che dura 11 giorni – dove ti devi organizzare da solo perché non ti danno né acqua né da mangiare – cade dal camion riempito all’inverosimile, lo lasciano lì a morire sotto il sole cocente».

 

In Libia ha vissuto il tormento per tre mesi e mezzo, come tanti altri eritrei, dell’oltretomba delle loro patrie galere. Da cui qualcuno è uscito cadavere, altri impazziti per quanto subito. Come è stata l’esperienza? Perché sei stato arrestato? Ennesima domanda cretina... «Preferisco non rispondere, dico solo che è stata molto dura. In Libia non occorre avere un capo d’imputazione per finire in prigione. Non devi essere colpevole di nulla, se loro vogliono ti fai la galera: sai quando entri, ma non quando esci». Resta serio e impassibile, ma qualche lacrima gli appanna gli occhi.

 

Ora che sei arrivato in Italia che cosa conti di fare? «Andarmene il prima possibile in un posto dove posso studiare, lavorare, integrarmi. Non so ancora dove, ma via da qui, sono consapevole che in Italia non c’è posto per me». E come fai a saperlo? «Grazie all’informazione: ci sono i giornali e Facebook con cui la nostra comunità comunica. Non si parte senza sapere a che cosa si va incontro».

 

Non trovi neppure le parole per descrivere l’agonia di questi tre anni: valeva la pena di affrontare ciò che hai vissuto e subito? «A questa domanda potrò rispondere solo alla fine del viaggio. Sono consapevole che è terminata solo la prima parte».

Perché sei partito? «Quando non hai scelta – e in Eritrea non ce l’hai  in quanto non esiste la democrazia – scegli la cosa meno peggiore: l’unica via è quella che hai davanti e devi rischiare».

 

 Johanes deve ancora stabilire se la cosa peggiore stava là o qua. Ed è questa la parte più tragica di questa storia.

«Non sono ancora arrivato alla mia destinazione. Ho ancora della strada da fare». Si conclude così l’intervista a Johanes.

Ti salutiamo, augurandoti buona fortuna, perché davvero te la sei meritata tutta e neanche gli interessi potranno mai risarcirti di tutto quanto ti è stato rubato. Non dalla vita, ma di chi sfrutta le esistenze altrui. Davvero, che schifo. Non bisogna andare in Libia per trovare gli umani-belve: questo lo sai, vero Johanes?

         

  

È sabato 2 maggio, siamo a Milano, ai Bastioni di Porta Venezia. Qui vive la comunità eritrea ed è questo il punto di ritrovo per i loro connazionali che arrivano a Milano per la prima volta. Direttamente da Lampedusa (miracolati dai barconi) e dopo aver attraversato il Sahara e averla scampata nelle prigioni libiche. Sono già un miracolo in terra, ma ancora non sanno se ringraziare il divino (o chi per esso). La domanda se era meglio morire o sopravvivere è ancora senza risposta: la tensione per il pericolo dell’attraversamento del Mediterraneo schiacciati come sardine nei pescherecci è scesa, ma sono lucidissimi sulla loro condizione personale, mica si fanno illusioni. Il mondo e le dinamiche che regolano i rapporti tra gli uomini le conoscono fin troppo bene.

 

Ma il ritrovo di Porta Venezia resta importante: lo sanno appena arrivano nel capoluogo lombardo che è lì che devono dirigersi. In viale Molise ogni giorno alle 18 vengono distribuiti generi alimentari di pronto consumo, vestiti di ricambio e cose importanti come le scarpe a chi il viaggio ha distrutto le sue, sapone, spazzolini da denti, lamette per la barba. E un sacco a pelo e una coperta per chi non ha garantito un posto a dormire al coperto.  

 

Già, ci pare di sentire la vacuità della retorica: “Ma è una goccia in mezzo al mare” ripeterà nel solito copione qualcuno. E, allora stateci voi, se ci riuscite, scalzi, a stomaco vuoto, senza un letto e la possibilità lavarvi. Provate voi a trovarvi in queste condizioni e poi diteci se quell’aiuto è solo una goccia. “Potevano restare al loro paese” pigolerà qualcun altro. E chi non vorrebbe restare a casa con la propria famiglia? Non è difficile capire, con un po’ di buona volontà, che ci sono luoghi al mondo dove non ci sono le condizioni non solo di lavorare, ma anche di vivere in democrazia e senza minacce.

 

Che siano benedetti, dunque, quei volontari che ogni giorno al mattino si informano dal ferramenta eritreo per sapere quanti arrivi a Milano sono previsti per quel giorno. E si organizzano con il mangiare e gli indumenti da distribuire in serata. A qualcuno trovano anche da dormire a casa di qualche privato. No, non nei centri di accoglienza: Milano ne ha aperti nove, non sono pochi, ma i miracoli da sola non riesce a farli e quindi si dà la priorità ai vecchi, ai malati, alle famiglie con bambini.

 

La Convenzione di Ginevra sui diritti umani non fa queste distinzioni, ma appare anche chiaro che davanti a una grande affluenza un criterio di “selezione” venga adottato. Gli eritrei in questo caso sono fra i più svantaggiati: uomini, giovani (generalmente fra i 20 e i 30 anni), sono single e neri... Fra i profughi (o li volete chiamare migranti, nonostante il regime dittatoriale che vige in Eritrea?) messi peggio.

 

Di loro cercano di occuparsi i militanti del Macao, il Nuovo centro per le Arti, la Ricerca e la Cultura. Che il nome non tragga in inganno, non è il Museo d’Orsay, ma una realtà che parte da un centro sociale autogestito nato con l’idea di «lottare per sostanziare l’idea di cultura come bene comune». E al di fuori dell’attività culturale, c’è forte l’impronta sociale.

 

Non siamo qui per caso e non stiamo facendo una scampagnata fuori porta. Al Macao, da mesi, si sono attrezzati per prestare i primi aiuti alle persone che sbarcano in Italia in condizioni disumane: ci spiace, ma un altro aggettivo, che nel contesto così drammatico ci sembra quasi retorico, non riusciamo a trovarlo. Al centro sociale – ricavato in spazi suggestivi dal profilo architettonico, là dove un tempo c’era la Borsa del macello – hanno allestito un magazzino dove vengono depositati gli aiuti.

 «C’è una politica, quella dei governi europei e dell’Europa stessa, per la quale i migranti e i profughi costituiscono in primo luogo un problema di sicurezza e di costi. Altrove, c’è una politica che sfida questa narrazione: nei gesti concreti di solidarietà e condivisione e nella costruzione di un discorso politico che ritiene ci siano responsabili e responsabilità, e non disgrazie e poveri disgraziati», spiegano al Macao.

 

La giornata termina alla Stazione Centrale: qui al Mezzanino, fra un piano e l’altro della costruzione, dormono i migranti, in particolare i siriani, che i treni dal Sud Italia scaricano ogni giorno in gran quantità. A occuparsi di loro ogni giorno Gianluca, un signore con qualche anno, senza nessun mandato, ma tollerato dal Comune e dalla Questura. «Non si possono lasciare i bambini in strada» lamenta, mentre ci racconta il dietro alle quinte di questa tragedia a cielo aperto con passeur che lucrano in modo indegno sulla pelle dei disperati. «Ma i furbetti – continua Gianluca – ci sono di qua e di là. Quando becco qualcuno a rubare un panino, lo pesto fino a quando non vedo il sangue». Sorpresi: «Ma come fino a sangue?!» replichiamo.

«Allora siete buonisti anche voi...» risponde sconsolato il paladino dei profughi. Non siamo buonisti, ma un’intuizione ci attraversa: «Gianluca, che posizioni politiche hai?» domandiamo. «Sono leghista! Fiero di esserlo! Lega Nord!».

L’uomo non condivide la nostra opinione sul paradosso della sua missione e del suo credo politico: «Ma Salvini quando grida contro i migranti fa solo politica!». Fa solo politica? Scusate, ma è poco?

Usciamo dalla stazione, sotto un cielo plumbeo e irreale che si adegua bene ai nostri pensieri: questa è l’umanità declinata nelle sue contraddizioni.

Pubblicato il 

13.05.15
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