“La natura – dice Eraclito – ama nascondersi”. Forse proprio per questo anche l’animale, il selvatico, l’infante, il folle e il saggio amano non di rado nascondersi, devono cercare spazi altri.


D’altronde, la città della compiuta denaturalizzazione, nella sua onnipervasiva ossessione commerciale non preserva più alcun segreto, alcuna lontananza, alcun vuoto, alcun nascondimento. Vengono cancellati e strappati dal suolo non solo l’oscurità della terra, la freschezza del torrente, la fulva pelliccia animale e lo straccio-cartone-tana del clochard, ma anche la lontananza quasi muta cui rinviano le pietre e i basolati irregolari, stratificati e misteriosi della storia.


Non solo la città generica si ripete oltre ogni limite, ma si pone sopra la terra e ne invade ogni strato, si sovrappone premendo e ostacolando, pertanto non solo in-siste ma anche ob-siste, impedendo e cancellando ogni modo d’essere diverso da quello dell’attualità.


Essa quasi ovunque sembra aver trionfato. La sua insistenza non concede spazio alcuno a quel libero “velarsi diradante” cui rinviava, al suo sorgere, il concetto stesso di verità. La città generica globale ’ con la sua esplicitazione-illuminazione totale, si oppone alla verità, essendo questa svelamento che preserva originariamente anche il nascondimento e la latenza, ovvero “aletheia” come dicevano i primi filosofi greci.
L’insistenza della città attuale, dimentica della verità, della esigenza di spazi di nascondimento e alterità che la verità richiede, rinvia pertanto all’errore, ossia in definitiva rinvia tristemente al dominio del Medesimo, all’esautoramento della libertà e della Differenza, all’esaurimento di ogni libera latenza e alterante potenza.


Non solo la natura, ma anche la storia ama nascondersi, o perlomeno oggi non sembra restarle altro da fare... Nelle città storiche essere e tempo esprimono la loro tensione, la loro attrazione ai limiti della rovina, quel dialogo fra le forme di pietra e le forme del tempo che si esprime nell’enigmatica, rovinata bellezza dei loro spazi, che laddove resistono ancora consentono di eccedere la sorveglianza totale dell’attualità.
Per una cultura come quella contemporanea nella quale tempo e spazio  sembrano essere solo “forme di impedimento” perché non consentono di raggiungere un consumo immediato dell’oggetto ma implicano distanza, fatica, inerzia e mediazione, la densa e contraddittoria stratificazione temporale della porosa città storica, con i suoi cunicoli e i suoi antri sotterranei, offre uno spazio ai fuggitivi, ai rifugiati dello spirito, consente di coniugare immaginazione e nascondimento, disegna un’immaginaria altra città.


Se “il tempo è l’esistenza nella modalità del non avere”, la città storica con le sue rovine e le sue infinite storie di riuso parla anche di un’utopica grande ridistribuzione, suggerisce la speranza di un  grandioso contrattempo rispetto all’insistente e arrogante just in time della produzione-distruzione attuale della vita.

Pubblicato il 

18.12.14
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