Erano tutti Charlie, le centinaia di migliaia di persone scese in piazza il mese scorso in seguito agli attentati nella capitale francese. Il gigantesco corteo di Parigi era guidato da una schiera di capi di stato. C’era Benjamin “Charlie” Netanyahu, il primo ministro israeliano. Lo stesso che nei mesi scorsi ordinava al suo esercito di bombardare Gaza senza pietà, uccidendo e incarcerando decine di giornalisti, e che ha portato il suo Stato al 96° posto nella classifica sulla libertà d’espressione stilata dal Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ).

Accanto a lui c’era Mariano “Charlie” Rajoy, primo ministro dello Stato spagnolo. Lo stesso che ha fatto approvare dal parlamento la ley mordaza (legge bavaglio) che prevede decine di nuovi delitti per reprimere il dissenso politico, con multe fino a 600.000 euro. Diventa ad esempio proibito filmare e fotografare i poliziotti nell’esercizio delle loro funzioni e saranno repressi molto severamente le manifestazioni non autorizzate così come i manifesti e gli slogan considerati “offensivi”. Come conseguenza di questa politica, nei mesi scorsi decine di persone sono state arrestate per “apologia di terrorismo” in seguito a commenti su Twitter.


In prima fila c’era anche il primo ministro ucraino Petro “Charlie” Poroshenko, giunto al potere in seguito ad un colpo di stato fascista, che in pochi mesi ha cancellato il russo dalle lingue nazionali, discriminando così un’ampia fetta della popolazione ucraina, e ha lanciato una procedura per rendere illegale il Partito comunista (circa 15% dei voti).

 

Una libertà d’espressione a due facce quindi, quella rivendicata dai Charlie in prima linea al corteo di Parigi. Da un lato, la difesa della libertà di accanirsi sui settori più precarizzati e vulnerabili della società, come alcune comunità africane ghettizzate nelle banlieues della Francia post-coloniale, pubblicando caricature di donne velate con tratti scimmieschi come quelle spesso tristemente presenti su Charlie Hebdo. Dall’altra, il diritto dei governi di rispondere con manganello, censura e galera a chi s’illude che la libertà d’espressione possa essere usata anche per criticare e smascherare i potenti.

 

La libertà d’espressione difesa dai capi di governo presenti a Parigi era quindi in contraddizione con quella di chi in piazza ci sta più spesso, ma sempre dall’altro lato degli scudi dei poliziotti e del filo spinato. La libertà degli oppressi, quella rivendicata e difesa dai giornalisti palestinesi, dagli indignados delle piazze di Madrid o dai minatori insorti nel Donbass. Quest’ultima, come ricorda il poeta Mahmoud Darwish, è una libertà molto più vulnerabile. A prima vista sembra fragile come un filo d’erba. Quando affronta i carri armati, rimane schiacciata. Basta però una goccia d’acqua e un raggio di sole per vederla spuntare di nuovo.

Pubblicato il 

12.02.15
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