Ci sono le “frizioni” anche per il motore dell’economia. Una delle frizioni classiche è attribuita alla disoccupazione, spiegata con il fatto che sul mercato del lavoro ci sono situazioni tali che impediscono ai salari di scendere a quei livelli per cui le imprese ritrovano conveniente assumere lavoratori e evitare la disoccupazione. Si fa rientrare il tutto nella legge della domanda-offerta o del mercato che crea il giusto equilibrio.


Il Ticino sarebbe un caso a parte ed è tema fortunato elettoralmente. Si sostiene che a fare da frizione è l’elevata disponibilità di frontalieri. In due modi, contraddittori. Dapprima, perché si spingerebbe il mercato del lavoro al ribasso (minor salario, condizioni di lavoro più esigenti); poi, perché si accresce l’occupazione (numero di frontalieri occupati) ma si ostacola l’occupazione dei residenti, creando disoccupazione. Si è però aggiunto un contesto nuovo. Approfittando di contingenze ritenute avverse (ad esempio rapporto franco/euro), si son create frizioni “opportune” per far fronte al mercato internazionale e per addomesticare quello del lavoro locale. Si riassumono in un metodo spiccio: fai scendere i salari di botto e così non crei disoccupazione (e devono ringraziarti) o ne crei solo in parte (ma tocchi un mercato parallelo, non integrato, che è quello dei frontalieri).
Questo genere di comportamenti finisce per essere o per dover essere considerato “razionale” da imprese e lavoratori: le prime perché ritengono che è loro dovere rimanere concorrenziali per mantenere ancora occupazione; i secondi perché non hanno via di scampo se vogliono ancora un reddito.


Anche la contrattazione, che dovrebbe sfociare in un contratto collettivo, risponde però ad un comportamento razionale: imprenditori o associazioni di imprenditori, lavoratori o sindacati che li rappresentano cercano un equilibrio. Qui ci sono imprenditori, spesso espressioni di gruppi situati chi sa dove, che vedono una frizione disdicevole, che fa perdere solo tempo. Considerano la contrattazione collettiva come qualcosa di irrazionale, in quanto si dà per scontato che un contratto di lavoro può essere solo individuale e non collettivo e che lavoratori o sindacati vivono fuori dalla realtà economica (sono ideologizzati), non hanno una conoscenza sufficiente del mercato e del liberoscambio. Avviene allora la richiesta di chiamare in causa lo Stato: da parte degli imprenditori per accusarlo di non tener conto delle loro necessità, praticando una politica suicida (litania della troppa burocrazia, troppe tasse, eccesso di spesa pubblica, sussidi sprecati ecc.); da parte dei lavoratori o dei sindacati per richiamarlo ai suoi obblighi precisi costituzionali: giustizia, occupazione, dignità umana, formazione.


La singolarità è che al di sopra o dentro tutto questo emerge la scienza economica con altre frizioni, non teoriche ma reali.. Come quando dimostra (v. analisi del premio Nobel Stiglitz), che i salari reali dagli anni ’70 in poi sono cresciuti molto meno della produttività (finita in profitti o in profitti per moltiplicare profitti) e che quindi la crisi in cui siamo trova origine in salari troppo bassi e andrebbe risolta attraverso una migliore distribuzione del reddito. Oppure si rifà all’insostituibile Keynes e al capitolo 19 della sua Teoria generale quando spiega, e la storia gli ha sempre dato ragione, che “la riduzione dei salari riduce la domanda aggregata e quindi ha un effetto depressivo; la flessibilità dei salari non è pertanto una ricetta per risolvere i problemi, ma essa ha gravi effetti sul sistema economico”. È quel che capita. Anche in Ticino.

Pubblicato il 

20.05.15
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