Immigrazione e minori

Uno non riesce nemmeno a immaginarselo. Un minore che attraversa confini in condizioni estreme, nelle mani di aguzzini, macinando distanze da atlante in difficoltà impossibili da riprodurre a parole. Senza genitori. Solo come un cane, in mezzo a tanti altri disperati, così disgraziati che ognuno resta abbandonato a sé stesso. Shakir, 11 anni, è riuscito a superare e a sopportare il viaggio dall’Eritrea all’Europa. Dal barcone è sceso fino a giungere al foyer della Croce Rossa di Paradiso, da dove con altri due ragazzi è scappato lo scorso 22 febbraio. Ecco la sua storia, o quel frammento di storia che conosciamo.

 

«È il settembre del 2015, la scuola ha riaperto e le attività sono ricominciate. Accompagno mio figlio all’allenamento di calcio. Osservo che c’è un nuovo compagno di squadra: è nero e conosce pochissimo l’italiano. Mi immagino uno spostamento familiare. Non penso neppure un secondo che sia un minore non accompagnato, che quel bambino sia qui da solo». Così Simona Spinedi Schoepf, che incontriamo a Breganzona nel suo studio di psicoterapia, ricorda il primo incontro con Shakir: «Non si poteva non notarlo, fosse stato solo per il sorriso che aveva. Lega subito con mio figlio, fra di loro c’è simpatia. Noto che dopo gli allenamenti fa la doccia, ma si rimette gli stessi indumenti usati in campo. Mi sembra strano. E ha un sacchetto piccolo piccolo, inadeguato alla pratica sportiva, dove ci stanno solo le scarpette. Vengo a sapere che è qui come richiedente l’asilo. Da solo. È poco più di un bambino, mi intenerisce e mi colpisce la sua situazione, che fa male». Shakir è simpatico, fa venire voglia di conoscerlo. «Vista l’amicizia che si sta instaurando con mio figlio, propongo un pranzo da noi dopo la partita. Chiedo l’autorizzazione alla direzione del foyer dove risiede e Shakir inizia così a frequentare casa nostra». Si integra subito bene e la frequentazione diventa un appuntamento fisso: ogni week end Shakir lo passa dagli Schoepf «portando allegria e trovando una casa che può sentire anche sua assieme ai miei due figli, uno nato nel 2006 e l’altro nel 2004: sono vicini d’età e si intendono bene. Passano le giornate a giocare, alla sera guardano un film, ridono in camera quando vanno a dormire: le cose che fanno i ragazzi assieme quando si divertono».


Shakir, piano, piano, inizia ad aprirsi e a raccontare un po’ di sé: abitava in Eritrea, ma è di origine somala, sono in sette fratelli e con uno di questi ha deciso, contro il volere dei genitori, di venire in Europa. Il ragazzo non parla volentieri del suo passato, e nessuno lo forza, ma, acquistando fiducia nella famiglia con cui trascorre ogni fine settimana, parla a mozziconi della sua storia: dice di non avere subito violenze fisiche, ma maltrattamenti psicologici. Riferisce di essere partito con un fratello maggiore, ma di averlo perso di vista in Sudan. Arrivato in Libia non sarà facile il “soggiorno”: «Shakir lì lavora per raccogliere i soldi necessari per la traversata. “Fai il bravo perché la tua vita vale meno del mio proiettile” gli dice chi lo controlla e che mi descrive come “un grosso uomo nero”». Un’idea fissa però ce l’ha: «Voglio andare in Svizzera» dirà quando approda col barcone in Italia. E in Svizzera arriverà. A Stabio, nel centro dove vengono smistati i minori, resta tre settimane e lì verrà separato dall’unico punto di riferimento che gli resta: un amico che si è fatto sul barcone e con cui lui ha condiviso quella esperienza folle, vertiginosa per qualunque essere umano.


Shakir viene assegnato al canton Ticino, che ha appena aperto un foyer per i minori non accompagnati. Inizia la scuola e il suo percorso d’integrazione che a un certo punto si incrocia con la famiglia di Bedano. «L’esperienza che viviamo con Shakir è positiva. Lo osservo, e da psicoterapeuta specializzata in trauma, constato che lo stress in lui non si è cronicizzato e che la permanenza nella nostra casa non riattiva traumi. Chiedo conferma agli educatori del foyer della Croce Rossa: sì, anche secondo loro, Shakir è contento di stare da noi. Io e mio marito decidiamo di annunciarci come famiglie affidatarie». A questo punto la famiglia Schoepf avvia il percorso per diventare famiglia affidataria e offrire una casa a Shakir, crescendolo con i propri figli.


A dicembre 2016 all’interno al Centro richiedenti l’asilo della Croce Rossa a Paradiso un somalo di 17 anni aggredisce con un coltello un connazionale, ferendolo in modo grave.«Sento la notizia alla radio, si parla di somali, penso a Shakir, mi spavento. Gli scrivo immediatamente e mi risponde che sta bene, ma che ha paura a restare nel foyer. Chiedo quindi all’educatrice di poterlo tenere con noi quella notte, ma ci viene negato il permesso. Pure il week end successivo, per la prima volta, Shakir non potrà venire a casa nostra perché ha delle attività nel foyer da seguire» continua Spinedi Schoepf. Arriva il Natale, Shakir lo passa con gli Schoepf, ma il 22 febbraio 2017 il ragazzo con altri due compagni del foyer scappa:. «Alla mattina non si presenta a scuola. La docente allerta la Croce Rossa, eppure i tre ragazzi, senza biglietti ferroviari, documenti d’identità, non vengono controllati da nessuno durante il viaggio che li conduce da Lugano, prima a Zurigo e poi a Basilea. Le autorità sono state allertate subito? Dopo tre giorni dalla sua fuga, riesco finalmente a sentirlo. È in Germania, fuori Basilea, ed è stato assegnato a una famiglia affidataria».


Che cosa non è funzionato? Perché è scappato?
Ce lo siamo chiesti anche noi. È stato molto doloroso, non sai in che condizioni è partito, che fine ha fatto, quando ha preso questa decisione. Noi lo vedevamo contento e si stava già proiettando nella nostra casa. Non si vedeva come un rifugiato sfigato, ma come il componente di una famiglia che poteva garantirgli affetto, vicinanza, sostegno, ma anche quel pallone nuovo o l’uscita al cinema come ogni ragazzo che ha una situazione normale. Siamo sempre in contatto con lui e, nel frattempo, Shakir mi ha fatto avere delle lettere in cui parla della sua fuga. Ne sapremo di più a fine mese quando andremo a trovarlo.


Alla luce della sua esperienza, ritiene più adatto l’affido in famiglia o la permanenza in foyer?
Se i foyer possono essere necessari, una casa, una famiglia sono tutt’altro. Occorre inoltre distinguere fra intervento educativo e sanzioni che celano un abuso di potere. Ritengo che l’affidamento sia un vantaggio per tutte le parti in causa. Per la Confederazione è una soluzione più economica rispetto all’istituto. Inoltre, evita la ghettizzazione dei minori e facilita una reale integrazione nel tessuto sociale grazie alla famiglia che fa da ponte. In questo modo si disinnescherebbe pure quella frustrazione del sentirsi perennemente fuori luogo, che può trasformarsi in una bomba a orologeria.

Pubblicato il 

10.05.17