Esteri

Come le donne di Almodóvar, la Spagna dopo le elezioni del 20 dicembre è sull’orlo di una crisi di nervi.
L’ipotesi di una Spagna “alla greca” è stata sventata. Una forsennata campagna politico-mediatica ha impedito a Pablo Iglesias (“populista”, “comunista”, “chavista”, “insolente”, “nichilista”, “golpista”…) di essere l’Alexis Tsipras iberico e a Podemos, il partito sorto sull’onda del movimento degli “indignati”, di diventare il Syriza spagnolo.


Podemos e Iglesias sono “solo” terzi (20,6%, 69 seggi sui 350 delle Cortes). Vicini ma dietro ai due partiti storici della Spagna post-franchista, il Partido Popular a destra e i socialisti del Psoe “a sinistra”. Destinatari fino a pochi anni fa dell’80-90% dei voti totali, oggi sono scesi al 50%, fatti a pezzi nelle urne per la corruzione sfacciata e una gestione feroce dell’austerità. Però ancora in testa (il Pp 28,7%, 123 seggi contro il 44,6% e 186 seggi del 2011; il Psoe 22%, 90 seggi contro il 28,7% e 110 seggi).


Se non “alla greca” poteva essere una Spagna “alla portoghese”, ipotesi improbabile ma non esclusa.
Lo scenario presenta analogie con il Portogallo, dove da novembre c’è un governo presieduto dal socialista António Costa con l’appoggio esterno del Bloco de Esquerda (un Podemos lusitano) e dell’inamovibile Partito Comunista, imperniato su un programma anti-austerity.


Si potrebbe fare anche in Spagna: una coalizione con alla testa Pedro Sánchez, il segretario socialista eletto nel 2014 alla guida di un Psoe agonizzante; con Pablo Iglesias come numero due del governo e Alberto Garzón, nuovo leader di Unidad Popular, emanazione dei resti di Izquierda Unida e Pce (2 seggi soltanto, nonostante il milione di voti). Ma non ci sono i numeri e forse neanche le condizioni politiche: 161 seggi, ne mancano 15 per arrivare a 176. Con i nazionalisti baschi e catalani arruolabili solo a condizione che sia riconosciuto il loro “diritto a decidere”, ossia la secessione.


Il programma di Podemos include, oltre a radicali misure anti-austerity e una nuova legge elettorale in senso proporzionale, una riforma genuinamente  federalista della costituzione del ’78 per riconoscere la realtà di una “Spagna plurinazionale” e cercare di disinnescare le pulsioni secessioniste, la più immediata in Catalogna.
Ma “i baroni” del Psoe hanno già messo Sánchez con le spalle al muro: nessun negoziato con “gli indipendentisti”, “in nessun caso” un governo di grande coalizione con il Pp.


Tutti contro tutti. Lo spettro dell’instabilità e dell’ingovernabilità. Veti incrociati, tatticismi, alchimie.
Rajoy, nonostante la sconfitta, non pensa affatto a dimettersi ma rifiuta l’incarico e propone – come la Germania, la Ue e un sempre più patetico Felipe González – un “patto di governabilità” fra Pp, Psoe e Ciudadanos (13,9% e 40 seggi, la risposta della destra liberal-liberista e centralista a Podemos), ma in real­tà lavora per nuove elezioni a giugno. Sánchez vorrebbe negoziare con Podemos e Up, ma ha le mani legate dal Psoe che, con davanti lo spettro del Pasok greco, non vuole Podemos e vorrebbe Ciudadanos (ma non basterebbe), Podemos è fermo su “un governo di cambio e di progresso” con il Psoe (quello di Sánchez) e la Up e dice no a Ciudadanos, “un PP ripulito”. Ciudadanos e il suo leader, Albert Rivera, si propongono come “cerniera” di una grande coalizione Pp-Psoe.


Incarico a Sánchez


Il 2 febbraio il re Filippo ha rotto gli indugi e conferito l’incarico a Sánchez. Che avrà 3 o 4 settimane per formare un governo e presentarsi alle Cortes per la fiducia. Se nei successivi due mesi lui o un altro fallirà l’obiettivo, si tornerà a votare, fine maggio, primi di giugno.
Sventata una Spagna “alla greca”, difficile una Spagna “alla portoghese”, l’unica sicura al momento è una Spagna “all’italiana”. Dopo il voto di dicembre, a Madrid è arrivato Machiavelli.

Pubblicato il 

04.02.16
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