Ancora troppe poche richieste ed economia latitante

Dal 1° luglio 2017 è operativo in Svizzera il Fondo di risarcimento per le vittime dell’amianto (http://fondo-efa.ch), ma finora all’omonima fondazione che lo gestisce sono giunte appena un centinaio di domande: troppo poche se si tiene conto della potenziale cerchia di beneficiari. E insufficiente è anche il contributo finanziario al Fondo sin qui fornito dall’industria e dall’economia, che il Consiglio di fondazione chiama dunque pubblicamente alla cassa a margine della presentazione di un primo bilancio di attività. Un bilancio da cui emergono tuttavia anche aspetti positivi e indicazioni interessanti.

Un primo dato significativo è che in quasi il 70 per cento dei casi delle prestazioni sin qui elargite dall’Fva, la vittima si è ammalata di mesotelioma (il tipico cancro da amianto che colpisce la pleura e più raramente il peritoneo) per aver subito un’esposizione alla polvere killer in un ambito non lavorativo, ma domestico o ambientale. Si può trattare per esempio di casalinghe che lavavano in casa le tute da lavoro dei loro mariti che lavoravano in fabbrica a contatto con l’amianto, di altri membri della famiglia oppure di persone che semplicemente hanno vissuto nei pressi di uno stabilimento in cui si utilizzava il pericoloso minerale. Per questa categoria di vittime sono finora state approvate 33 richieste di risarcimento (per 4,4 milioni di franchi) e altre 15 sono ancora in fase di valutazione. «Si tratta soprattutto di parenti di ex lavoratori dell’amianto, ma vi sono anche dei casi, alcuni riguardanti purtroppo dei giovani, in cui non è nemmeno chiaro come la persona possa essere entrata in contatto con l’amianto», osserva Luca Cirigliano, segretario centrale dell’Unione sindacale svizzera (Uss) e membro del Consiglio di fondazione, precisando come per l’Fva questo non rappresenti un aspetto rilevante: «Per ottenere delle prestazioni basta che la persona si sia malata di mesotelioma e che verosimilmente sia entrata in contatto con l’amianto in Svizzera».


Nel suo primo anno e mezzo di attività la fondazione ha in un primo tempo dato la precedenza a questi casi di esposti non lavorativi (dunque esclusi dalle prestazioni dell’assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali) ma nella sua ultima seduta del 2018 ha disposto risarcimenti (per 1,4 milioni di franchi) anche ai famigliari di 23 vittime che avevano ottenuto il riconoscimento della malattia professionale ma non tutte le prestazioni dovute. L’intesa raggiunta nell’ambito della tavola rotonda che ha portato all’istituzione del fondo prevede infatti anche di porre rimedio all’odiosa prassi seguita dalla Suva (l’Istituto nazionale svizzero di assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali) fino al 2016 che prevedeva il versamento “a rate” del risarcimento morale (la cosiddetta “indennità per menomazione”, attualmente pari a 118.560 franchi). Col risultato che nella maggior parte dei casi il malato moriva prima e di regola veniva privato di circa la metà di quanto gli spettasse. Dal 1° gennaio 2017 la Suva versa l’indennità in una sola tranche, mentre per i casi dal 2011 in poi l’Fva prevede il pagamento della differenza e per quelli precedenti (dal 2006) un indennizzo forfettario di 20.000 franchi.

Nessuna domanda dall’estero
Facendo le somme, risulta che a oggi sono state accolte 56 domande di risarcimento, di cui un paio concesse nonostante la mancanza di qualche requisito in quanto “casi di rigore”. Una trentina sono invece le richieste rifiutate, in genere perché la vittima presentava patologie asbesto-correlate diverse dal mesotelioma. Sempre sul piano statistico risulta poi che in circa la metà dei casi al momento della presentazione della domanda la vittima era ancora in vita e che per ora non è ancora giunta alcuna richiesta dall’estero.

Manca l’informazione
Dal punto di vista organizzativo, l’Fva ha dato prova di buon funzionamento, tenuto conto che la procedura si svolge molto rapidamente: tra il deposito della domanda e il versamento della prestazione decorrono al massimo 2-3 mesi. C’è però il problema del basso numero di richieste, assolutamente incompatibile con quello relativo alle diagnosi di mesotelioma: dal 2008 se ne registrano in media 200 all’anno, come confermano sia l’ultimo “Rapporto sul cancro in Svizzera” dell’Ufficio federale di statistica sia i dati dei registri cantonali dei tumori. «Evidentemente c’è qualcosa che non funziona se in quasi un anno e mezzo sono giunte meno di cento domande: la gente sembra non conoscere l’esistenza del fondo. È una situazione inattesa e frustrante cui ora la Fondazione intende porre rimedio con un’offensiva comunicativa nei prossimi mesi», spiega Luca Cirigliano.
Come si intende procedere?
La Fondazione, che mai avrebbe immaginato di doversi occupare di questo aspetto, sta elaborando una campagna d’informazione e sensibilizzazione da realizzarsi essenzialmente attraverso i canali mediatici in Svizzera. In un secondo tempo, l’offensiva sarà estesa a quei paesi (come Italia ed ex Jugoslavia in particolare) dove si presume vivano persone che hanno lavorato in Svizzera e che qui possano aver subito un’esposizione all’amianto. Per questa seconda tappa l’idea è di avvalersi della collaborazione di patronati ed enti previdenziali dei singoli stati.
L’informazione (perlomeno  nei nuovi casi) potrebbe passare attraverso i medici curanti.  Ritiene che siano già sufficientemente sensibilizzati?
Abbiamo già prodotto del materiale informativo a beneficio dei medici di famiglia e volantini destinati ai loro pazienti. Ma su questo fronte c’è sicuramente ancora da lavorare visto il numero esiguo di domande che ci ritroviamo.
Il Consiglio di fondazione a fine 2018 ha pure lanciato un appello all’economia affinché questa contribuisca in maniera più sostanziosa al finanziamento del Fondo. Vuol dire che parte delle promesse fatte in sede di tavola rotonda non sono state mantenute?
Non c’è un problema di promesse non mantenute, ma c’è la necessità di aumentare ulteriormente il capitale della Fondazione Efa. Per garantire le prestazioni alle persone che secondo i nostri calcoli ne hanno diritto, avremmo infatti bisogno da qui al 2025 fino a 160 milioni di franchi e attualmente in cassa ce ne sono meno di 40. Si tratta evidentemente di un obiettivo da raggiungere a tappe nei prossimi anni. In questo senso è però importante che vi siano le richieste d’indennizzo: più ne riconosciamo più l’economia dovrà contribuire.
I soggetti che devono contribuire sono essenzialmente sempre gli stessi e sono solo quelli che hanno lavorato direttamente con l’amianto o ne hanno fatto un uso massiccio?
La cerchia di finanziatori deve assolutamente allargarsi e comprendere non solo l’industria del cemento-amianto ma l’intero tessuto economico. Quello dell’amianto è infatti un problema di società perché fino alla sua messa al bando nel 1990 ne ha approfittato tutta l’economia, utilizzandolo e facendolo utilizzare. Si pensi agli impresari costruttori, alle assicurazioni cantonali contro gli incendi che raccomandavano l’uso di pannelli in amianto, alle società elettriche, all’industria chimica, alle banche che finanziavano progetti o che erano azioniste di società che producevano amianto. Ci hanno insomma guadagnato un po’ tutti e ora è giusto che tutti contribuiscano, evidentemente in modo differenziato in funzione del livello di coinvolgimento, a risarcire i danni causati. Non si tratta di cercare delle responsabilità o delle colpe, ma di favorire una soluzione consensuale, come è tradizione nel sistema elvetico, a un problema dell’intera società. Altrimenti la gente si rivolgerà ai tribunali per far valere (giustamente) le proprie pretese, ma questo non è nell’interesse né delle vittime né dell’economia. Economia a cui conviene dunque pagare.

Pubblicato il

17.01.2019 14:42
Claudio Carrer

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