Giustizia

«Babbo morì su una carretta che non doveva salpare»

Incontro con un figlio che da decenni lotta per far luce sulla strage tuttora impunita della Moby Prince in cui lui perse il padre

LIVORNO - Giacomo Sini è un giornalista freelance che collabora anche con area. L’uomo è anche un famigliare delle vittime della strage della Moby Prince, avvenuta il 10 aprile 1991 al largo del porto di Livorno. Una tragedia impunita e per la quale non sono mai state appurate le responsabilità della compagnia armatrice che fece salpare una nave con gravi carenze nei dispositivi di sicurezza. È stata la più grave strage sul lavoro mai avvenuta in Italia, che raccontiamo attraverso la testimonianza di Giacomo, proprio in coincidenza con la Giornata mondiale per la salute e la sicurezza sul lavoro che si celebra il 28 aprile.

 

Il 10 aprile di ogni anno, da trentatré anni, Livorno si sveglia ferita. La città toscana ricorda la strage del Moby Prince, il traghetto che nel 1991, poco dopo essere partito dal porto, si scontrò con la petroliera Agip Abruzzo e andò a fuoco: si salvò una persona, il giovane mozzo Alessio Bertrand; altre 140 morirono. Il 10 aprile di ogni anno, da trentatré anni, Giacomo Sini si sveglia con un vuoto. Antonio Sini, suo padre, si era imbarcato su quella nave all’ultimo per andare in Sardegna a trovare un genitore che stava male. Anche per lui non vi fu scampo. Giacomo aveva un anno e mezzo: «Mi hanno detto che stava per perdere il traghetto perché io piangevo e lui si era fermato a farmi giocare» ci dice mentre a piedi, assieme alla sua compagna Fabiola, ci avviciniamo alla Fortezza Nuova dove ha luogo la prima delle varie cerimonie previste in città questo 10 aprile 2024. Siamo leggermente in ritardo. In lontananza risuonano le trombe e quando arriviamo sul posto ha già preso la parola il sindaco Luca Salvetti (PD), un ex giornalista che quella tragica notte fu tra i primi a recarsi sul posto. Un centinaio di persone lo ascoltano in silenzio. Alle sue spalle due striscioni: “Moby Prince: 140 morti, nessun colpevole!” e “Verità e giustizia per il Moby Prince”.

 

Tutto, in fondo, è riassunto in quelle poche parole. A trentatré anni dall’evento non è ancora stata fatta giustizia. La “verità” dei tribunali è quella che la strage avvenne per colpa, se non del fato, della nebbia e della disattenzione dell’equipaggio. «Siamo stanchi e non ce la facciamo più ogni anno a dover ripetere sempre le stesse cose. Vorremmo un giorno poter solo commemorare i nostri cari senza dover ribadire la necessità di giustizia» ci dice Giacomo, irrequieto per la giornata carica di emozioni che l’attende, lui che di esperienza nell’affrontare situazioni tese ne ha un bel po’. Fotogiornalista freelance, Giacomo Sini ha scritto anche per area dai posti caldi del pianeta, dalla Palestina all’Iraq passando per il Rojava. Sull’ultimo numero di area si trova numero trovate un suo reportage a bordo della nave Life Support (qui una galleria fotografica) che effettua salvataggi nel Mediterraneo. Un’esperienza molto toccante: «Prova ad immaginare cosa significhi vedere il salvataggio di cinquanta persone in mare pensando a mio babbo e alle altre 139 persone morte a poche miglia dalla costa senza che nessuno sia andato a soccorrerle». Cresciuto senza il padre, ufficiale della marina militare, Giacomo ha cercato di conoscere il genitore attraverso i racconti degli altri, leggendo i giornali, rovistando fotografie e facendo visita ai parenti paterni in Sardegna. Con l’adolescenza capisce che la strage non può restare impunita e si impegna nell’associazione dei famigliari delle vittime: «Ho letto centinaia di pagine processuali e perizie tecniche e posso dire di sapere chi sono i colpevoli: Navarma, la compagnia armatrice della famiglia Onorato, il comandante dell’Agip Abruzzo che non doveva trovarsi lì e quello della Capitaneria di Porto che toppò i soccorsi».

 

Le celebrazioni del 2024 si svolgono in un contesto particolare. Da poche settimane è partita la terza commissione parlamentare d’inchiesta per fare luce sulle cause della strage. Le precedenti commissioni non misero la parola fine sulla vicenda, ma appurarono le infondatezze delle sentenze giudiziarie: non vi era nebbia quella notte e l’equipaggio si comportò in modo lodevole; inoltre l’Agip Abruzzo non poteva stare lì dove era ancorata. Restano, però, molti aspetti ancora da chiarire, come la presenza di una terza nave mai identificata che, comparsa all’improvviso, avrebbe potuto influire sulla dinamica della collisione. Come per altre stragi italiane, anche attorno al Moby Prince sono emersi depistaggi e varie teorie. La più nota è quella dei traffici d’armi in rada tra navi fantasma e navi americane di ritorno dalla guerra del Golfo. Traffici plausibili, data la vicinanza con la base militare di Camp Darby, ma la cui ipotetica implicazione nella vicenda ha contribuito a mettere una cortina di fumo su altre responsabilità. In particolare quelle della Navarma, la compagnia armatrice di proprietà della famiglia Onorato. Un concetto ribadito senza peli sulla lingua da Giacomo Sini in una sua intervista pubblicata proprio questo 10 aprile sul quotidiano Il Tirreno: «Ho voluto dare un segnale a chi lavorerà all’interno della nuova commissione. È riduttivo parlare di navi pirata che si scambiavano armi. Lo dico da antimilitarista. Questi traffici c’erano prima e dopo quella notte, ma così facendo si tiene lontana l’attenzione sulle vere colpe». Per il giornalista il concetto è chiaro: «Il Moby Prince era una carretta del mare e non era in grado di navigare. Indipendentemente dai traffici d’armi o dalla posizione dell’Agip Abruzzo, il traghetto in quelle condizioni non sarebbe mai dovuto partire». In città, l’intervista di Giacomo ha creato dibattito. Al bar le persone lo incalzano, gli danno pacche sulle spalle. «Tutti sapevano che quei traghetti erano dei colabrodo, ma che si dovevano far rendere» dice il barista. A Livorno le piaghe della strage, alimentate dall’impunità, sono ancora vive nell’anima cittadina.

 

Trent’anni di lotte per la giustizia

In questo 10 aprile i giornali aprono con la notizia di un’ennesima strage sul lavoro. L’esplosione di una turbina idroelettrica al confine fra Toscana ed Emilia ha ucciso sei operai. Giacomo sfoglia il giornale e scuote la testa: «Fa male! Quella del Moby Prince è una strage sul lavoro causata dall’insicurezza e vorrei non dovere piangere continuamente altri morti così». In questi anni, la battaglia dei famigliari delle vittime del Moby Prince è stata un esempio di perseveranza di fronte all’impunità, ai depistaggi e agli insabbiamenti. È solo perché, per oltre trent’anni, l’associazione dei famigliari non ha mai cessato di far sentire la propria voce ribadendo che non si è trattato di una fatalità che oggi si continua a cercare la verità. Un insegnamento che è stato tramandato alle vittime di altre stragi, come quella nella fabbrica Thyssenkrupp di Torino (sette operai morti nel 2007) e quella della stazione di Viareggio (deragliamento di un treno che causò un’esplosione che fece 32 morti nel 2009): «Queste stragi hanno sempre una responsabilità che va cercata nei manager che per il profitto lesinano sulla sicurezza. Siamo stati vicini ai famigliari di altre stragi, consigliandoli su cosa fare per evitare depistaggi e convinti che la lotta e la solidarietà siano le uniche risposte di fronte alle menzogne del potere». Un concetto emerso anche nel pomeriggio, in una gremita sala del Consiglio comunale dove hanno testimoniato proprio alcuni famigliari della strage di Viareggio. Dopo i discorsi ufficiali ha preso la parola anche Giacomo. Con la sua spilla della Federazione anarchica italiana (FAI) appuntata sul blazer ha guardato dritto negli occhi il parlamentare di Forza Italia Pietro Pittalis, presidente della terza commissione parlamentare: «Vorrei che fosse fatta luce sulle lacune nella sicurezza sul Moby Prince, altrimenti le nostre strade si divideranno». Dopo di che ha elencato, punto per punto, gli aspetti lacunosi che, in nome del profitto, rendevano il traghetto a rischio per i passeggeri: dai dispositivi antincendio, all’impianto comunicazione passando per i radar.

 

Poco dopo Giacomo è in testa al corteo che, passando dal centro città, raggiunge il molo dove partì il Moby Prince e dove vi è la lapide con il nome delle vittime. Sullo sfondo un traghetto della Moby, la compagnia della famiglia Onorato, dal 2023 controllata al 49 per cento dagli svizzeri di MSC. «Ogni volta che vengo qua e che vedo un traghetto Moby penso ai problemi che il Moby Prince aveva nel momento in cui è partito quel giorno» ci dice il collega, fumando l’ennesima sigaretta di questa lunga giornata. Le trombe risuonano nuovamente e, uno ad uno, vengono letti i nomi delle vittime. Passeggeri, ma anche tanti membri dell’equipaggio: lavoratori morti lavorando. La cerimonia si conclude con il lancio di 140 rose in mare. Giacomo è raggiunto da amici, stringe mani, saluta, abbraccia. Ha il volto stanco, leggermente provato. Questo posto suscita in lui un’emozione forte e dolorosa: «Quando è successa la strage non avevo neanche due anni. Per non perdere il ricordo di babbo guardo una foto dove sono sulle sue spalle e spesso, la sera tarda, prima di rientrare a casa vengo qui da solo. Mi capita di parlare con lui e di raccontargli quello che sto facendo».

 

Alla fine di un giorno carico di emozioni, dopo una pizza, andiamo a bere un po’ di vino alla sede livornese della FAI: «Essere un militante anarchico e avere un certo tipo di visione del mondo mi fa leggere quanto è successo in un certo modo. Io mi sono sempre sentito abbandonato dallo stato. Uno stato che nella vicenda ha le sue grandi responsabilità se pensiamo al ruolo di ENI, proprietaria di Agip Abruzzo, e della Capitaneria di Porto che non salvò nessuno. Ma si sa, lo stato non accusa mai sé stesso e la giustizia statale si è visto cosa ha fatto: niente!». Se giustizia non è stata fatta e forse mai lo sarà, Giacomo spera almeno che un giorno sui libri di storia possa essere scritta un’altra parola: verità.

Pubblicato il

26.04.2024 16:15
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