L'editoriale

«Comunque vada a finire, con questo processo si scrive una pagina di storia, non solo per i cittadini di Casale Monferrato, ma per tutto il mondo». Non possiamo che condividere e rilanciare da queste colonne le parole pronunciate lunedì scorso a Novara dal Pubblico ministero Gianfranco Colace al processo Eternit che si sta celebrando davanti alla Corte di Assise e che vede imputato il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny, con l’accusa di omicidio plurimo intenzionale in relazione alla morte di 392 persone uccise dalle polveri di amianto della sua fabbrica (cliccare qui per maggiori dettagli). Un processo difficile e dall’esito tutt’altro che scontato, ma che in ogni caso ha già dato un contributo fondamentale alla ricerca della verità su una tragedia di portata mondiale e nella quale Schmidheiny e la sua famiglia sono stati attori di primo piano a livello internazionale per oltre cent’anni. E che per decenni ha visto la Svizzera fungere da centrale di comando della potente industria mondiale del cemento-amianto e di tutte le nefandezze che emergono inequivocabili nei tribunali italiani, soprattutto grazie all’eccezionale indagine della Procura di Torino che portò nel 2009 all’apertura del primo maxi-processo per disastro ambientale e successivamente (dopo che nel 2014 la Cassazione annullò per intervenuta prescrizione la condanna di Schmidheiny a 18 anni) all’avvio di altri procedimenti per omicidio tuttora in corso.


Quando si è confrontati alla criminalità d’impresa e a tragedie tanto enormi come quella dell’Eternit, la rincorsa della giustizia per le vittime è un percorso doloroso e pieno di ostacoli, soprattutto se l’imputato è un potente miliardario. Anche quando, come nel caso concreto, le responsabilità sono evidenti, provate e documentate. Per i tanti familiari delle vittime che hanno visto i loro cari ammalarsi, soffrire e morire soffocati dall’amianto respirato loro malgrado dentro o fuori quella fabbrica, è durissima ascoltare i difensori dell’imputato mettere in dubbio le diagnosi di mesotelioma come stanno facendo nel processo di Novara. «Tutta questa gente di Casale Monferrato non sarà mica morta di tumori delle vie respiratorie per aver mangiato troppi Krumiri [i biscotti al burro tipici della città, ndr]», osserva in modo sarcastico un rappresentante dei familiari delle vittime. Giusto. Ma la verità storica e quella giudiziaria non sempre coincidono.


Questo non deve e non può però far perdere la speranza in una giustizia che finalmente collimi con i fatti che sono sotto gli occhi di tutti. Le donne e gli uomini di Casale Monferrato rincorrono questo sogno da decenni e in Italia ci sono dei magistrati competenti, determinati e testardi, che non si lasciano intimorire dal potere di un miliardario prepotente e bugiardo come Stephan Schmidheiny, che con i suoi miliardi pensa di potersi comprare tutto, anche l’impunità.


In Svizzera, suo paese e patria dell’Eternit, ci è riuscito. A nessun procuratore è infatti mai nemmeno venuto in mente di provare a chiamare Stephan Schmidheiny a rendere conto in un’aula di giustizia del suo comportamento e dei morti causati dalla sua attività imprenditoriale (anche) negli stabilimenti elvetici. E la politica gli ha sempre riservato un trattamento di favore sul piano legislativo: all’inizio degli anni Novanta con un calendario per l’abbandono dell’amianto fatto su misura per gli interessi delle sue imprese e tuttora con disposizioni in materia di prescrizione che di fatto rendono impossibile una sua incriminazione e complicatissima anche ogni azione civile tesa alla riparazione dei danni provocati.


È dunque con ammirazione che si deve guardare alla giustizia italiana, pur con tutti i suoi difetti e le sue lentezze. In Italia, almeno, si celebrano i processi. E si scrive la storia. La storia di una tragedia di cui Schmidheiny è uno dei principali protagonisti e responsabili a livello planetario. E se uno Stato non è capace di dire che “così non si fa”, si veicola il devastante messaggio che i miliardi sono una garanzia d’impunità.

Pubblicato il 

01.02.23

Dossier