Quattro anni a Schmidheiny per omicidio colposo

Il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny è stato condannato a 4 anni di carcere dal Tribunale di Torino, che lo ha riconosciuto colpevole di omicidio colposo per la morte da esposizione all’amianto di un ex operaio dello stabilimento Eternit di Cavagnolo (da lui controllato tra la metà degli anni Settanta e il 1982, anno della chiusura) e di una cittadina che abitava nelle vicinanze. Si tratta della prima sentenza pronunciata nell’ambito dei quattro processi “Eternit bis” che si stanno celebrando in Italia.

 

Una sentenza che il giorno 23 maggio 2019 riaccende la speranza di tante vittime, da tanto, troppo tempo in attesa di giustizia e sconfortate dalle decisioni dei tribunali. Come quella della Corte di Cassazione che nel 2014, giudicando i reati prescritti, salvò Schmidheiny da una condanna a 18 anni per disastro ambientale: «Un giudice tra diritto e giustizia deve scegliere il Diritto», si spiegò.


Oggi quel medesimo Diritto ha consentito al giudice Cristiano Trevisan di dichiarare Stephan Schmidheiny (71 anni) colpevole di omicidio colposo aggravato (così come chiedeva il pubblico ministero Gianfranco Colace) e di condannarlo a 4 anni di reclusione, tre in meno rispetto a quanti proposti dall’accusa. Ma il magistrato torinese, che in sede di requisitoria aveva definito quello dello svizzero un «disegno lucido che metteva davanti la tutela dell’azienda e in secondo piano la tutela della salute», coglie nella sentenza un segnale positivo: «È solo un giudizio di primo grado, ma è un primo tassello. Spero che segni il ritorno ad una giurisprudenza più attenta ai diritti delle vittime», commenta Colace pochi minuti dopo la lettura del dispositivo. Un sentimento ovviamente condiviso dai rappresentanti delle vittime presenti all’udienza: «È un inizio che dà speranza», afferma Giuliana Busto, presidente dell’Afeva, l’associazione dei familiari delle vittime di Casale Monferrato, la cittadina piemontese dove l’Eternit ha prodotto una strage di dimensione quasi inimmaginabili (già oltre 2.300 morti e, in media, una diagnosi di mesotelioma e un decesso alla settimana). «È una condanna mite ma importante, perché lo Stato afferma che non si uccide la gente per soldi», le fa eco Bruno Pesce (foto piccola in alto), leader storico delle battaglie sindacali e civili contro l’amianto e cofondatore dell’Afeva.
Dopo questa prima sentenza di Torino, le cui motivazioni saranno depositate entro i prossimi tre mesi ma contro la quale gli storici difensori di
Schmidheiny Astolfo Di Amato e Guido Carlo Alleva hanno già preannunciato il ricorso in Appello, l’attenzione si sposta sugli altri tre tronconi dell’Eternit bis. Un processo iniziatosi nel capoluogo piemontese, ma che nel 2016, in seguito alla decisione del giudice dell’udienza preliminare di Torino di riqualificare il reato di omicidio volontario ipotizzato dalla Procura nel meno grave omicidio colposo, ha subito uno “spacchettamento” sulla base della competenza territoriale a seconda del luogo di residenza delle vittime. Per Schmidheiny questo significa dover affrontare quattro processi, uno per ciascuno dei quattro stabilimenti di Eternit Italia, che il miliardario svizzero ha controllato dalla metà degli anni Settanta alla metà degli Ottanta quando era il massimo dirigente della multinazionale del cemento-amianto.

 

Alti tre processi
Mentre per i casi relativi alla fabbrica di Rubiera si attendono le prime mosse della Procura di Reggio Emilia, per gli 8 morti riferibili a quella di Bagnoli, Schmidheiny siede già sul banco degli imputati (si fa per dire, visto che lui non presenzia) davanti alla Corte di assise di Napoli: qui il processo è iniziato il 12 aprile scorso e l’ipotesi di reato per cui è rinviato a giudizio è quella dell’omicidio volontario. «Il ritorno a questa imputazione, che la Procura di Torino aveva individuato sin dall’inizio sulla scorta delle enormi prove raccolte, è la conseguenza di una corretta lettura degli atti processuali», osserva l’avvocata Laura D’Amico, legale di parte civile rappresentante l’Afeva, volgendo il pensiero al processo che si celebrerà a Vercelli.


Si tratta del filone più importante dell’Eternit bis perché riguarda i morti causati dallo stabilimento di Casale Monferrato: poco più di un mese fa i pubblici ministeri hanno notificato l’avviso di chiusura indagini, anche in questo caso ipotizzando l’omicidio volontario di circa 400 persone morte ammazzate dalle polveri di amianto, ex lavoratori dell’Eternit ma anche moltissimi cittadini che in quella fabbrica non vi avevano nemmeno mai messo piede. «Continueremo a cercare giustizia. Giustizia secondo il diritto», afferma, confermando l’intenzione di procedere per omicidio volontario, il pm torinese Gianfranco Colace, che per questo caso verrà “applicato” alla Procura di Vercelli, portandovi competenza e memoria storica, visto che (insieme con Raffaele Guariniello, ora pensionato) ha condotto l’intera inchiesta Eternit ed è stato protagonista di tutti i processi sin qui celebrati. Entro qualche mese dovrebbe giungere la richiesta di rinvio a giudizio che dovrà poi passare al vaglio del giudice dell’udienza preliminare, verosimilmente già nell’autunno di quest’anno.


La condanna pronunciata a Torino, per quanto mite e non definitiva, è un segnale importante che restituisce speranza e voglia di lottare: «Continueremo a batterci affinché, anche nei prossimi processi Eternit, di cui quello per l’enorme strage di Casale, vengano proporzionalmente affermate verità e giustizia» si legge in una presa di posizione dell’Afeva.

La difesa: un capro espiatorio


I difensori di Schmidheiny continueranno invece a battersi per l’impunità del loro assistito. Scrivono in un comunicato a commento della condanna a quattro anni: «Durante il procedimento abbiamo provato che l’esposizione alle poveri che ha provocato le malattie non è in relazione al periodo in cui Schmidheiny controllava Eternit Spa», affermano evocando la contestata tesi «scientifica» secondo cui sono solo le prime esposizioni all’amianto a determinare l’insorgere dei tumori e non quelle successive. Per la cittadina morta di mesotelioma insinuano invece che la fonte di esposizione non sia stata la Eternit, ma gli asciugacapelli con isolanti in amianto che avrebbe utilizzato per alcuni quando lavorava come parrucchiera. A loro giudizio Schmidheiny sarebbe un «capro espiatorio dell’incuria italiana». In Italia, affermano, «c’erano all’epoca un migliaio di imprese (anche pubbliche) che utilizzavano amianto nella produzione. Tuttavia lo Stato italiano se ne è fottuto di regolamentarne la lavorazione e l’uso», concludono.


Ma la verità giudiziaria, almeno per ora, è un’altra: Schmidheiny Stephan Ernst è «colpevole».

Pubblicato il

04.06.2019 19:13
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