Rischio nucleare e finanziario

Sono trascorsi ormai cinque anni dalla catastrofe nucleare di Fukushima, ma la Svizzera sembra non aver imparato nulla stando alle decisioni politiche sin qui adottate e alle bugie che la lobby dell'atomo continua a raccontare. Nella cosiddetta “Strategia energetica 2050”, pensata per portarci fuori dal nucleare all'indomani dell'incidente giapponese, non vi è quasi più traccia di questo obiettivo, come confermano le recenti decisioni parlamentari.


Decisioni prese oltretutto in contemporanea con l’avvicinarsi di una catastrofe finanziaria per le centrali nucleari elvetiche, anticipata dalla richiesta di aiuti pubblici avanzata dal colosso energetico Alpiq che ha chiuso il 2015 con una perdita di 830 milioni di franchi che si somma al passivo di 902 milioni del 2014.


Il mito dell’energia nucleare pulita, sicura e redditizia è insomma definitivamente crollato, ma in troppi ancora non riescono a farsene una ragione. C’è dunque da sperare che in autunno il popolo svizzero dia un segnale chiaro accogliendo l’iniziativa popolare dei Verdi “Per un abbandono pianificato” che prevede lo spegnimento di tutti i cinque reattori presenti su suolo svizzero dopo 45 anni di esercizio, vale al dire al più tardi nel 2029, quando dovrebbero chiudere gli impianti argoviesi di Beznau II e Leibstadt e quello solettese di Gös­gen. La centrale di Beznau I, la più vecchia al mondo, dovrebbe invece essere spenta entro un anno dall’accettazione dell’'iniziativa, mentre quella di Mühleberg chiuderà nel 2019, ma solo perché così ha deciso il suo gestore BKW alla luce degli investimenti necessari per colmare gravi lacune in materia di sicurezza.


Attualmente pare questa l’unica via almeno per correggere le contraddizioni della Strategia energetica 2050, che da un lato si prefigge l’uscita dall’atomo attraverso il divieto di costruzione di nuovi impianti più moderni e meno insicuri, ma dall’altro crea le condizioni affinché quelli esistenti, uno più vetusto dell’altro, possano rimanere in esercizio a tempo indeterminato.

Una situazione davvero paradossale. Innanzitutto per i rischi che si fanno correre alla popolazione, visto che, notoriamente, il pericolo d’incidente aumenta con l’invecchiamento dei reattori: in questo senso dovrebbe insegnare qualcosa il disastro nucleare di Fukushima (che tra l’altro ha interessato un impianto dello stesso tipo e della stessa generazione di quello di Mühleberg), dove si è seriamente corso il rischio di cancellare la vita in un raggio di 250 chilometri attorno alla centrale e di dover evacuare il 40 per cento della popolazione giapponese, come ammesso dall’allora primo ministro Naoto Kan.


Vi sono poi i rischi di ordine finanziario, tenuto conto che le centrali nucleari svizzere sono oggi di fatto tecnicamente fallite dopo aver per decenni venduto energia a prezzi inferiori a quelli di produzione. Una situazione da sempre denunciata dagli avversari del nucleare e oggi sotto gli occhi di tutti, che potrebbe costare caro alla collettività: essendo i gruppi energetici in gran parte ancora in mani pubbliche, sarebbero infatti i cittadini attraverso le imposte a dover passare alla cassa in caso di un loro fallimento.


Allo stato attuale è fondamentale vigilare affinché questi colossi non svendano ai privati il patrimonio pubblico costituito dagli impianti idroelettrici, che rappresentano e continueranno a rappresentare un pilastro della produzione energetica in Svizzera e della dichiarata “svolta” che i fautori del nucleare tentano di boicottare. Anche di fronte a dati incontrovertibili, come quelli, assai interessanti, che si sono registrati nell’ultimo anno: nonostante il fatto che il reattore di Beznau I sia ininterrottamente fuori esercizio dal 13 marzo 2015 e che durante questo periodo, per una serie di panne, altri impianti siano stati spenti a più riprese (in agosto per un paio di giorni nessuno era in funzione, una prima storica) riducendo così il contributo delle centrali del 17 per cento, la Svizzera è stata in grado comunque di produrre più elettricità di quanto ha consumato e di mantenere il quantitativo esportato superiore a quello importato. A dimostrazione che il nucleare non è insostituibile.

Pubblicato il

17.03.2016 10:53
Claudio Carrer
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