Eternit

«È una strage dovuta all’amianto? In realtà è una strage dovuta all’uomo, che si sarebbe potuta evitare o perlomeno contenere. Una strage il cui responsabile è Stephan Schmidheiny». È con questa, tanto amara quanto chiara considerazione che il pubblico ministero Gianfranco Colace lunedì scorso ha introdotto la sua requisitoria nel processo Eternit bis in corso davanti alla Corte di Assise di Novara, dove il miliardario svizzero è imputato per l’omicidio plurimo aggravato di 392 persone, morte ammazzate dalla polvere killer dispersa sui luoghi di lavoro e negli ambienti di vita dallo stabilimento Eternit di Casale Monferrato, che Schmidheiny ha gestito in prima persona tra il 1976 e il 1986. La richiesta di pena è attesa per il 10 febbraio.

«Non c’è una vicenda al mondo di malattie asbesto-correlate che sia paragonabile» a quella di Casale Monferrato, la cittadina in provincia di Alessandria con i suoi 34.000 abitanti e 50 nuovi casi di mesotelioma (il tipico cancro da amianto che colpisce soprattutto la pleura) ogni anno. «Una città martire – ha proseguito Gianfranco Colace –. Dove non ci sono bombe o sparatorie, ma dove tutti i giorni si consuma una strage silenziosa» con cui le cittadine e i cittadini convivono da decenni: «Qui basta un mal di schiena perché il pensiero corra subito al mesotelioma», ha ricordato.


Quella di Casale è «una storia di devastazione sociale e umana del territorio, di contrapposizione tra salute e lavoro e simbolo macabro di una certa imprenditoria che ha le caratteristiche del colonialismo», ha rincarato il pubblico ministero ricostruendo il “periodo di gestione svizzero” di Eternit Italia (precedentemente del “gruppo belga” facente capo alla famiglia Emsens-De Cartier), di cui il magnate elvetico ha assunto il pieno controllo a partire dalla metà degli anni Settanta. Cioè in un’epoca in cui l’abbandono dell’amianto era una decisione «già maturata anche dallo stesso Schmidheiny, che però andò avanti per altri 10 anni» ha sottolineato Colace.


Il 1975 è infatti stato «l’inizio del declino» della lavorazione industriale dell’amianto. L’ultimissimo colpo di coda risale al 1981, grazie ai lavori di ricostruzione resisi necessari dopo il terremoto in Irpinia. Poi la produzione è crollata. «Anche perché diventava preponderante la questione della salute», ha ricordato il pm. Con lo Statuto dei lavoratori adottato nel 1970 viene infatti riconosciuta tutta una serie di prerogative a lavoratori e sindacati anche in materia di salute e sicurezza, il che spiana la strada a una nuova ventata di rivendicazioni di diritti nei luoghi di lavoro. Anche nello stabilimento di Casale Monferrato, dove la Commissione di fabbrica muove i suoi primi passi già nel 1971.

L’amianto era dappertutto
Colace si è soffermato a lungo sulle condizioni igienico-sanitarie della fabbrica, la più grande ma anche la più vecchia e vetusta d’Italia, citando tutta una serie di testimonianze, documenti, memorandum e rapporti agli atti del processo, che dimostrano come grave fosse la situazione e come l’imputato ne fosse perfettamente consapevole e conoscesse i rischi per gli operai e la popolazione. Già nel 1972, in occasione di una prima visita allo stabilimento di Casale, Othmar Wey, un alto dirigente di Eternit Svizzera, aveva potuto constatare una situazione «“catastrofale” per quanto riguarda l’attività con l’amianto e la protezione dei lavoratori». E anche un altro dirigente Eternit, parlando di «ambiente seriamente compromesso», ha descritto una condizione di «inaccettabile» polverosità e conseguente pericolosità per la salute dei lavoratori pure nel 1975, quando l’amianto veniva ancora movimentato a mano e «tirato giù dalle botole con i forconi». E anche l’Inail (l’Istituto nazionale Assicurazione Infortuni sul Lavoro) nello stesso periodo denunciava una «situazione gravissima» con una «generale dispersione di fibre d’amianto in tutto lo stabilimento» e un «rischio asbestosi molto elevato». E persino il professor Robock, scienziato al soldo di Schmidheiny («non certo un amico dei sindacati», ha sottolineato Colace) nel 1976 suggeriva in un rapporto delle misure di contenimento, come l’installazione di aspiratori industriali al posto delle comuni scope che si continuavano a utilizzare provocando ulteriore dispersione di polvere negli ambienti di lavoro. E poi ci sono, tra il 1976 e il 1981, 13 verbali dell’Ispettorato del lavoro (peraltro «intervenuto tardi e generosamente», ha affermato il pm) con decine di prescrizioni relative alla polverosità. Una polverosità favorita anche dal sistema di riscaldamento ad aria, si sottolineava invece in un rapporto dell’Inail del 1981. C’erano insomma carenze da ogni punto di vista: dispersione di polvere, stabilimento sporco, impianti di aspirazione assenti o malfunzionanti, manutenzione carente delle macchine e mezzi di protezione personale dei lavoratori del tutto insufficienti. «Il grado di separazione nei confronti del pulviscolo è molto basso. Portarle ha quasi esclusivamente un effetto psicologico», ammetteva candidamente nel 1976 il dottor Robock parlando delle mascherine fornite agli operai. E la situazione non è mai cambiata nel corso degli anni della gestione Schmidheiny: una perizia del 1983 accertava ancora una «presenza ubiquitaria di polvere di amianto», nonostante l’ispezione (evidentemente preannunciata) su cui essa si basa era stata preceduta da una pulizia straordinaria della fabbrica. Ci si era però dimenticati delle parti alte dello stabilimento. Significativa è anche un’immagine proiettata in aula che mette a confronto lo stato dell’area di stoccaggio dell’amianto all’inizio degli anni Trenta e nel 1986, anno di chiusura della fabbrica: come si vede non ci sono grandi differenze.


Quali furono dunque le risposte di Schmidheiny durante la sua gestione? «I flussi di denaro provenienti dalla Svizzera andavano a coprire le perdite e non certo a investire in sicurezza», ha sostenuto Gianfranco Colace, illustrando la “reazione difensiva di fronte agli attacchi contro l’amianto” approntata da Mister Eternit nell’ambito di una serie di incontri, gestiti da lui personalmente, con i dirigenti di fascia alta della multinazionale del cemento-amianto. Come quello tenutosi a Neuss (in Germania) nel 1976 da cui emerge la piena consapevolezza di costoro circa la correlazione tra esposizione all’amianto e mesotelioma (scientificamente provata già all’inizio degli anni Sessanta) e in cui in sostanza si decise «di non spendere troppo per la salute dei lavoratori e di optare per standard di sicurezza meno cautelativi», ha spiegato Colace. E di organizzare la disinformazione degli operai e dell’opinione pubblica, con direttive contenute in un apposito “manuale” (denominato Hauls 76) redatto pochi mesi dopo il Convegno di Neuss. Un manuale operativo dal taglio molto pratico, per aiutare i dirigenti locali a rispondere alle possibili contestazioni contro l’amianto da parte di operai, sindacalisti, giornalisti, vicini di stabilimento e clienti, con l’intento di far credere che la produzione e il commercio di manufatti in amianto può continuare senza esporre a serio rischio l’integrità fisica delle persone. «Si tratta di un documento che si occupa molto dell’amianto e poco della salute, teso a tutelare gli affari di Schmidheiny e a respingere gli attacchi», ha commentato Colace.


Succede così che nel 1977 il Servizio di sicurezza e igiene sul lavoro (Sil) della fabbrica di Casale Monferrato emette un “bollettino informativo” per gli operai dai toni rassicuranti in cui si afferma che “l’amianto, considerato semplicemente come materia, non è affatto pericoloso” e che “il contatto manuale con esso non apporta alcun danno”. E in cui si sottolinea invece che è “opportuno tenere presente che l’abitudine al fumo di sigarette può sostanzialmente elevare il pericolo di danni alla salute in concomitanza di altri fattori nocivi”. Questa è l’unica “informazione”, data ai lavoratori durante tutta la gestione svizzera. Un’informazione dunque in contrasto con i dati discussi dai dirigenti riuniti a Neuss un anno prima (le malattie asbesto-correlate «sono ormai un fenomeno conosciuto da tempo», affermava Schmidheiny in quell’occasione).


Tonnellate di rifiuti nel fiume
E se nell’ambiente di lavoro «nessuna delle precauzioni previste veniva rispettata», non andava meglio all’esterno della fabbrica, ha incalzato Colace. Eternit scaricava infatti acqua del ciclo produttivo (dunque contenente cemento e amianto) direttamente nell’adiacente Po: 20 tonnellate alla settimana che col tempo sono andate a restringere l’alveo del fiume e a creare una penisola diventata poi una spiaggetta dove la gente di Casale, ignara del pericolo, si godeva le estati in riva all’acqua. E poi c’era la discarica a cielo aperto, che era anche un centro di vendita e distribuzione ai cittadini della zona del famigerato “polverino”, materiale di scarto della tornitura dei tubi che veniva impiegato come una sorta di cemento con cui si realizzavano marciapiedi, vialetti, cortili, aie, campi sportivi e ogni genere di pavimentazione, oppure (ancora peggio) veniva sparso a secco nei solai e nei sottotetti per isolare abitazioni e condomini. Una pratica che secondo una serie di elementi in mano all’accusa è andata avanti almeno fino al 1980 e che dunque, contrariamente alla tesi dei legali di
Schmidheiny, non è cessata con il suo avvento. E una presunta diffida dal vendere il polverino da parte di Eternit al titolare della discarica (che peraltro nega) del 1979 non cambia il quadro delle responsabilità: «Trattandosi di una discarica aperta dove chiunque poteva andare a servirsi, l’informazione andava data alla popolazione», ha osservato il pubblico ministero.
In tutta questa vicenda, ha concluso Gianfranco Colace, «nel rapporto tra salute e lavoro ha insomma prevalso il lavoro. E oggi contiamo i morti e il prezzo sociale».


Sono 392 i morti al centro del processo di Novara: 62 lavoratori dell’Eternit e 330 familiari o esposti ambientali. «Tra loro anche una persona che si recava a Casale Monferrato solo per studiare e una donna che vi andava semplicemente in vacanza» ha fatto notare la sostituta procuratrice di Vercelli Mariagiovanna Compare che con Colace sostiene l’accusa. Compare ha dedicato il suo primo intervento a una minuziosa esposizione dei criteri medici e diagnostici  che consentono di ritenere con certezza che le 392 vittime sono tutte morte a causa di un mesotelioma. Contrariamente a quanto sostengono i legali di
Schmidheiny sulla scorta dei pareri dei loro consulenti tecnici (accusati peraltro da Colace di «eccesso di zelo difensivo» e di «fare scempio della logica e della realtà»), «non vi è nessun dubbio», ha concluso Mariagiovanna Compare.


Il processo riprende il 10 febbraio, per quando è attesa la conclusione della requisitoria e la richiesta di pena (aggiornamenti su areaonline.ch).

Pubblicato il 

01.02.23

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