Una strage compiuta consapevolmente

I dirigenti della Eternit conoscevano il pericolo per la salute degli operai ma lo hanno ignorato e sono andati avanti, cercando «di nascondere e di minimizzare gli effetti nocivi per l'ambiente e per le persone derivanti dalla lavorazione dell'amianto facendo così trasparire un dolo di elevatissima intensità». È uno dei passaggi più forti e significativi del voluminoso documento pubblicato settimana scorsa attraverso cui i giudici del Tribunale di Torino spiegano le ragioni della condanna del barone belga Jean Louis De Cartier e del miliardario svizzero Stephan Schmidheiny e a 16 anni di carcere per omissione dolosa delle misure anti-infortunistiche sui luoghi di lavoro e disastro ambientale doloso permanente.

Reati che hanno causato oltre tremila morti e che sono riconducibili principalmente all'attività degli stabilimenti Eternit di Casale Monferrato (provincia di Alessandria) e Cavagnolo (Torino) e parzialmente ai fatti relativi alle sedi di Napoli Bagnoli e Rubiera (Reggio Emilia). Nelle fabbriche italiane, precisa la Corte, «si operava solo in funzione delle direttive impartite dai rispettivi incaricati degli imputati» che i sono succeduti ai vertici della multinazionale dell'amianto a partire dagli anni Cinquanta. E non autonomamente dai direttori dei singoli stabilimenti, come avevano sostenuto durante il dibattimento gli avvocati della difesa: le loro tesi, volte ad affermare la «sostanziale estraneità» di De Cartier e Schmidheiny nelle vicende delle fabbriche italiane, «non possono essere assolutamente condivise», scrivono il presidente della Corte Giuseppe Casalbore e i giudici estensori Fabrizia Pironti e Alessandro Santangelo. Che aggiungono: «Il loro preteso ruolo di direzione e coordinamento» in una posizione al vertice del gruppo e la «asserita mancanza di effettiva gestione da parte loro di Eternit Italia sono tutte circostanze smentite clamorosamente dalle risultanze istruttorie».
«De Cartier e Schmidheiny, pertanto – si legge nella motivazione della sentenza – si sono direttamente occupati degli stabilimenti italiani, sono risultati perfettamente a conoscenza delle condizioni in cui tali stabilimenti si trovavano, della pessima qualità dei relativi ambienti di lavoro, della pericolosità delle specifiche lavorazioni, dell'elevata mortalità degli operai e dei cittadini che ne derivava, delle richieste – sempre più pressanti – che le organizzazioni sindacali avanzavano e mai nulla hanno fatto o hanno preteso che i responsabili dei singoli stabilimenti industriali facessero per migliorare tali condizioni». E i «timidi interventi che sono stati faticosamente lentamente realizzati» sotto la gestione Schmidheiny, «anche se indirettamente hanno prodotto un leggero miglioramento della situazione complessiva», sono stati «comunque predisposti esclusivamente per finalità produttive, solo nell'intento di realizzare utili e guadagni maggiori, ma non certamente perché ci si preoccupasse della salute dei lavoratori o perché ci si attivasse per interrompere la lunga spirale di morte che era in atto», sentenziano in giudici torinesi.
Entrando poi nel dettaglio delle responsabilità individuali di De Cartier e Schmidheiny (e smontando così una delle tesi difensive), precisano: «È evidente che gli imputati non sono gli esecutori materiali della condotta, non avendo personalmente provveduto al trasporto di materiali di amianto senza protezione o senza copertura o ad affidare a privati cittadini i sacchi rotti perché li rammendassero, o, ancora, all'abbandono di materiali di scarto in discariche di fortuna a cielo aperto così come non hanno provveduto personalmente alla cessione a privati cittadini di feltro e polverino». «Tutte queste attività, che possono essere definite collaterali e connesse al ciclo produttivo del cemento amianto, si sono poi aggiunte alle altre carenze strutturali, direttamente inerenti, invece, alla produzione industriale, quali la veicolazione verso l'ambiente esterno della polvere degli stabilimenti attraverso impianti di ventilazione inadeguati ed obsoleti ovvero la frantumazione degli scarti di produzione a cielo aperto ovvero lo scarico di reflui liquidi contenenti amianto nel Po e, infine, l'abbandono degli stabilimenti dopo il fallimento della società».
«Nessuna di tali attività – proseguono i giudici­ è stata realizzata personalmente dagli imputati, ma tutte sono state poste in essere con la piena conoscenza da parte loro, sotto il loro diretto controllo e senza che si occupassero minimamente di impedirne la realizzazione». De Cartier e Schmidheiny erano insomma «perfettamente a conoscenza di tutto ciò che veniva effettuato negli stabilimenti italiani» sia in ordine alle attività di produzione sia in ordine a tutte le altre, «per così dire, collaterali, ma che comportavano la necessità di disporre di beni e di cose appartenenti all'azienda» ed hanno «consentito che esse continuassero nonostante avessero pure ben presente l'enorme pericolosità derivante per le popolazioni vicine agli stabilimenti industriali».
Evocando in modo specifico la vicenda del polverino contenente fibre di amianto (materiale di scarto della tornitura dei tubi) che veniva venduto o regalato ai cittadini e da questi utilizzato per la pavimentazione di strade, cortili, aie o per la coibentazione di sottotetti, i giudici sottolineano: «La cessione avveniva con la fattiva collaborazione della direzione dello stabilimento che non avrebbe di certo potuto prestarsi a tale attività se De Cartier e Schmidheiny non avessero voluto». I due hanno insomma «contribuito in modo determinante alla realizzazione delle condotte criminose» che hanno «creato un immane pericolo per l'incolumità e la salute di un numero indeterminato di persone».
Il loro comportamento «assume caratteri di notevole gravità per «la pluralità dei luoghi e degli stabilimenti interessati», per la «notevole durata della condotta», per la «straordinaria portata dei danni e del pericolo che ne sono conseguiti e tuttora continuano a conseguire». Ma, aggiungono i giudici, «la gravità dei reati commessi risulta addirittura accresciuta se si passa a valutare l'intensità del dolo che ha costantemente accompagnato la condotta criminosa» di De Cartier e Schmidheiny «nel corso degli anni di rispettiva gestione della società Eternit».
I giudici riportano quindi la testimonianza resa in aula dalla presidente dell'Associazione familiari vittime amianto Romana Blasotti-Pavesi, figura simbolo della tragedia provocata dalla fabbrica di Casale Monferrato che a lei ha portato via cinque familiari (il marito, la sorella, il nipote, un cugino e infine la figlia non ancora cinquantenne). «La testimone, dopo aver raccontato le sue tristi esperienze e dopo aver riferito che ad un certo punto aveva ben compreso che di amianto si moriva, anche perché aveva visto "...per un periodo di tempo tanti manifesti (di morte) appesi ai muri della fabbrica quando portavo i bambini a scuola" si è domandata: "...perché... continuare..."». «Da questa semplice domanda – commenta la Corte –emerge tutta l'intensità del dolo degli imputati, perché, sia De Cartier, sia Schmidheiny, nonostante tutto hanno continuato e non si sono fermati, né hanno ritenuto di dover modificare radicalmente e strutturalmente la situazione, al fine di migliorare l'ambiente di lavoro e di limitare per quanto possibile l'inquinamento ambientale». E qualche riga più in basso rincara la dose: «L'elemento soggettivo appare ancora di maggiore pericolosità, perché gli imputati hanno pure cercato di nascondere e minimizzare gli effetti nocivi per l'ambiente e per le persone derivanti dalla lavorazione dell'amianto, pur di proseguire nella condotta criminosa intrapresa, facendo così trasparire un dolo di elevatissima intensità». Ai due condannati non può quindi essere «riconosciuta alcuna attenuante», concludono i giudici di Torino.

Le condanne e gli atti criminosi

•    Stephan Schmidheiny (64 anni) e Jean Louis De Cartier (91 anni) sono stati condannati a 16 anni di reclusione ciascuno. Per entrambi è stata inoltre disposta l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, l'interdizione legale per la durata della pena e l'incapacità di contrattare con la Pubblica Amministrazione per tre anni. Dovranno pure risarcire danni patrimoniali e non patrimoniali a circa 2.500 dei quasi 6.000 soggetti costituitisi parte civile nel processo. I due sono stati condannati
•    Perché negli stabilimenti (di Casale Monferrato, Cavagnolo, Napoli e Rubiera) hanno «omesso di adottare i provvedimenti tecnici, organizzativi, procedurali, igienici necessari per contenere l'esposizione all'amianto, di curare la fornitura e l'effettivo impiego di idonei apparecchi personali di protezione, di sottoporre i lavoratori ad adeguato controllo sanitario mirato sui rischi specifici da amianto, di informarsi e di informare i lavoratori medesimi circa i rischi specifici e circa le misure per ovviare a tali rischi».
•    Perché in aree pubbliche e private al di fuori degli stabilimenti hanno «fornito a privati e a enti pubblici e mantenuto in uso materiali di amianto..., determinando un'esposizione incontrollata, continuativa e a tutt'oggi perdurante, senza rendere edotti gli esposti circa la pericolosità dei materiali e per giunta inducendo un'esposizione di fanciulli e adolescenti anche durante attività ludiche».
•    Perché presso le abitazioni private dei lavoratori hanno «omesso di organizzare la pulizia degli indumenti di lavoro in ambito aziendale, in modo da evitare l'indebita esposizione ad amianto dei familiari conviventi e delle persone addette alla pulizia; con l'aggravante che il disastro è avvenuto, in quanto l'amianto è stato immesso in ambienti di lavoro e in ambienti di vita su vasta scala e per più decenni,  mettendo in pericolo e danneggiando la vita e l'integrità fisica sia di un numero indeterminato di lavoratori sia di popolazioni  e causando il decesso di un elevato numero di lavoratori e di cittadini».

Pubblicato il

24.05.2012 03:00
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