La mano invisibile

Non si può più misconoscere o negare che nella finanza si moltiplicano scricchiolii e sgretolamenti. Anche se affannosamente tamponati da interventi pubblici (con la storiella del troppo grande per fallire e fusioni di banche, ad esempio).


C’è chi sostiene e dimostra che nella svolta verso questo nostro secolo qualcosa è successo. Il capitalismo, “regime economico e sociale nel quale i capitali, fonte di reddito, non appartengono a quelli che permettono di realizzarli con il loro lavoro” (come diceva a metà Ottocento, con formula semplice, quel grande filosofo ed economista che fu Pierre-Joseph Proudhon), avrebbe cambiato natura. È diventato un “capitalismo di carta”. Come?


Ce lo dicono gli esperti di un istituto (McKinsey Global Institute, istituto di ricerca economica e sociale internazionale), certamente non anticapitalisti. Il discorso può sembrare complicato. Semplifichiamolo. Si è valutato un “bilancio mondiale” che ha integrato attivi reali (società  e aziende varie, infrastrutture varie, proprietà intellettuale o brevetti ecc.) e finanziari (titoli, azioni, depositi, attivi di fondi pensione ecc.). Messaggio che ne esce: “Prima della svolta del millennio, l’aumento dell’attivo netto mondiale si avvicinava alla crescita del prodotto  interno lordo” (cioè, in parole semplici, alla ricchezza reale creata ogni anno), ma, attorno all’anno 2000, “il patrimonio netto, il valore degli attivi e il debito hanno cominciato a crescere molto più velocemente e voracemente del prodotto interno lordo”. Non c’è chi non avverta uno squilibrio, assurdo. Impressiona però l’ampiezza colossale.


Traduciamo, in cifre, per capire meglio. Dal 2000 ad oggi, l’inflazione del prezzo degli attivi (azioni, titoli vari, opzioni, titoli di trading o commercio materie prime ecc.), un’inflazione di cui non si parla mai, ha creato 160mila miliardi di dollari di “patrimonio di carta”. Perché di carta? Perché le ricchezze reali hanno progredito molto, ma molto meno rispetto a quelle indicate sulla carta. Una sorta di “bluff”economico.


Non è cosa nuova. E quanto si chiama “finanziarizzazione dell’economia”, prosperata dagli anni 80 dopo la deregolamentazione monetaria e la liberalizzazione della finanza volute da Reagan e Thatcher, sviluppatasi soprattutto negli ultimi due decenni. Che spinse le imprese a ricorrere al credito-debito (a tassi di interesse minimi), non per investire in capacità di produzione − frenando anzi la retribuzione del lavoro per aumentare la produttività e guadagnare di più − ma per fagocitare altre imprese (eliminare la concorrenza) o per acquistare le proprie azioni (favorendo dunque gli azionisti, aumentando cioè il corso dei titoli e dividendi).


Se pensiamo ora a quanto è capitato con Credit Suisse e Ubs, con quanto sembra tristemente promettere la Commissione d’inchiesta parlamentare (Cip) per bocca della sua neoeletta presidente centrista (v. intervista a La Liberté di Friborgo), che non sembra affatto intenzionata a indagare sul perché si son formati e si formano i “patrimoni di carta” (che poi la Confederazione e quindi i contribuenti sono chiamati a rendere... reali), forse non si può neppure sperare nella conclusione cui è giunto l’ex direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, De Larosière. Il quale ha perlomeno avuto il coraggio recentemente di smontare quel meccanismo infernale pubblicando un libro che porta il titolo “Per finirla con l’illusione finanziaria” (“En finir avec l’illusion financière”, ed. Odile Jacob). Libro che andrebbe consegnato, con l’obbligo di lettura, ai quattordici commissari della Cip e a Isabelle Chassot, sua presidente.

Pubblicato il 

22.06.23
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