Giustizia

Stephan Schmidheiny aveva “piena consapevolezza” della nocività dell’amianto e dei suoi effetti cancerogeni, delle condizioni di polverosità della fabbrica “enormemente nocive” per la salute di lavoratori e cittadini, ma “per mero fine di lucro” ha perseverato nella sua condotta tesa ad assicurare la continuità produttiva e non ha adottato le misure che s’imponevano per ridurre la dispersione della fibra killer all’interno dei luoghi di lavoro e nel territorio. Queste, in estrema sintesi, le motivazioni della condanna a 12 anni di reclusione per omicidio colposo aggravato, inflitta lo scorso 7 giugno dalla Corte d’Assise di Novara al miliardario svizzero per la strage provocata dall’attività industriale dell’Eternit di Casale Monferrato (Alessandria) sotto la sua gestione, tra il 1976 e il 1986.

 

Donne e uomini, lavoratori e familiari o semplici cittadini morti ammazzati dalle polveri “disperse abbondantemente” in fabbrica e in tutti gli ambienti di vita: eventi cagionati da “una condotta negligente, imprudente ed imperita dell’imputato” nonché dalla “violazione di regole cautelari”, si legge nell’argomentazione del verdetto pubblicata negli scorsi giorni. Un volume di ben 1.020 pagine che analizza uno per uno i 392 casi di morti per mesotelioma (il tipico cancro da amianto che colpisce la pleura o il peritoneo) oggetto del processo, giungendo alla conclusione che Stephan Schmidheiny è penalmente responsabile di 147 decessi e che per 46 casi va invece assolto. Per le altre 199 vittime, decedute prima del 7 giugno 2008, è invece scattata la prescrizione. Questo in ragione del fatto che la Corte, presieduta dal giudice Gianfranco Pezone, ha riqualificato il reato di omicidio intenzionale contestato dalla Procura (che chiedeva l’ergastolo) in omicidio doloso, fattispecie che si prescrive in 15 anni.


L’imputato, affermano i giudici, era consapevole che “un utilizzo indiscriminato e non accorto dell’amianto” e che “la conseguente elevata polverosità dei locali di lavoro avrebbero comportato seri rischi per la salute dei dipendenti, legati allo sviluppo delle gravi patologie asbesto-correlate, già ai tempi individuate in asbestosi, tumori polmonari e mesotelioma”. Ma non si può ritenere che egli abbia previsto con sicurezza e aderito pienamente ai numerosissimi eventi lesivi, cioè che li abbia accettati pur di proseguire l’attività imprenditoriale (tesi questa sostenuta dall’accusa). Argomenta la Corte: il fatto che il fine perseguito da Schmidheiny fosse il profitto d’impresa (“un modus operandi di qualsiasi realtà aziendale”, osservano) non deve “per ciò stesso essere interpretato come elemento caratterizzante un atteggiamento psicologico di dolo”. “A maggior ragione” se il fine era il lucro, “l’imputato non avrebbe potuto non tenere in debito conto anche delle conseguenze economiche derivanti da un evento lesivo di tale portata”. Le perdite sarebbero state “elefantiache”. “Tanto da ritenere assolutamente non convincente” che Schmidheiny “avesse accettato un’ipotesi talmente irragionevole autodistruttiva”.


Secondo i giudici “non realistica” si dimostra anche l’ipotesi che Schmidheiny “scelse deliberatamente di perseguire il profitto a discapito della salute pubblica, confidando che il trascorrere del tempo”, per via della lunga latenza del mesotelioma (che può insorgere anche 30-40 anni dopo l’esposizione, ndr) “e l’avanzare dell’età lo avrebbero posto al riparo dal giudizio di responsabilità”. “L’imputato non avrebbe potuto fare affidamento su una circostanza tanto aleatoria ed evanescente, non potendo prefigurarsi con certezza la durata né della propria esistenza in vita, né di quella delle potenzialmente numerose vittime”, si legge nelle motivazioni della sentenza. E ancora: “I danni economici e reputazionali che l’imputato avrebbe dovuto affrontare, posti in un ipotetico giudizio di bilanciamento con i vantaggi economici attesi dall’attività industriale, non avrebbero potuto che avere un peso predominante in una lucida ed oculata strategia imprenditoriale (pur economicamente orientata), potendosi assolutamente negare, pertanto, la verosimile adesione dello stesso agli eventi di reato verificatisi”.

 

Agì con colpa cosciente
Tante sono però le negligenze e le omissioni ravvisate dai giudici di Novara, secondo cui il magnate svizzero ha commesso omicidi con colpa cosciente: “Era ben consapevole della problematica legata alla diffusione di polveri di amianto all’interno degli stabilimenti Eternit” e “poteva e doveva rendersi conto” (in virtù di diverse segnalazioni, tra le quali le numerose ispezioni dell’Ispettorato del lavoro) delle “condizioni di estremo e insostenibile inquinamento”. Una condizione rilevata dallo stesso dottor Robock (scienziato di fiducia e al soldo dell’Eternit) che, dopo un sopralluogo dello stabilimento di Casale nel 1980, in una relazione aveva segnalato “tutte le criticità di una situazione preoccupante, lamentando la caduta e rottura di sacchi accatastati in cumuli, la fuoriuscita di amianto, l’utilizzo di scope per la pulizia, ma soprattutto la frantumazione a cielo aperto degli scarti con nuvole di polvere spinte dal vento in zone limitrofe”.

 

Intossicazione letale di una comunità
Riferendosi agli investimenti effettuati da Schmidheiny durante la sua gestione, i giudici smentiscono la tesi difensiva secondo cui questi sarebbero stati fatti per migliorare la sicurezza, sottolineando come le misure adottate siano state “inadeguate”, i mezzi apprestati “insufficienti” e le omissioni “gravi”. Nella sentenza si fa per esempio specifico riferimento alla realizzazione del mulino Hazemag nella seconda metà degli anni Settanta, “oggetto di specifico rimprovero di colpa nei confronti dell’imputato che, in un periodo in cui sicuramente era certa la micidialità di grandi esposizioni a microfibre di amianto e che chiamava interventi che ne limitassero e prevenissero l’inalazione, ha deciso di investire in una struttura che avrebbe comportato la frantumazione a ciclo continuo e a cielo aperto di grandissime quantità di scarti di produzione di amianto proveniente da tutti gli stabilimenti italiani e, quindi, la propagazione di ingenti quantità di polveri di amianto nel contesto urbano circostante”, contribuendo così “all’intossicazione letale dell’intera comunità casalese”.

 

Quello che andava fatto
“La produzione industriale di amianto rappresentava in quanto tale un’attività pericolosa”, che imponeva all’imprenditore l’adozione di “ogni possibile cautela, dalla meno complessa ed elaborata, alla più semplice e immediata”, aggiungono i giudici ipotizzando (“senza pretesa di esaustività”) tutta una serie di misure che si sarebbero potute e dovute attuare: come l’adozione di maschere altamente filtranti per la protezione delle vie respiratorie dei lavoratori, il lavaggio degli abiti da lavoro in una lavanderia aziendale, la creazione di un locale mensa dove i dipendenti avrebbero potuto trascorrere le pause in un ambiente non contaminato, l’umidificazione del materiale lavorato, l’abolizione di qualsiasi pratica di manipolazione della polvere in assenza di protezione (come l’apertura dei sacchi di amianto mediante taglio con coltello), l’approntamento di un sistema di aspirazione delle polveri garantendone l’effettiva funzionalità con controlli e manutenzioni periodici, così come la copertura degli automezzi usati per il trasporto di amianto in partenza e in arrivo dallo stabilimento, così da impedire la dispersione di fibre in ambiente nell’attraversamento del centro cittadino di Casale.


Quanto si è verificato per effetto della condotta di Stephan Schmidheiny era “senza alcun dubbio”, “oggettivamente prevedibile”. Prevedibilità che per essere data non necessita di una “completa delineazione delle modalità d’insorgenza del mesotelioma”. Basta la “consapevolezza che la respirazione di fibre di amianto …comporta l’insorgenza di malattie asbesto-correlate, soprattutto ad elevate quantità”. Una consapevolezza che “alloggiava sicuramente” in Schmidheiny, che “sin dagli esordi della carriera imprenditoriale aveva dimostrato di detenere tutti gli strumenti conoscitivi necessari e sufficienti per prevedere le incombenti morti di lavoratori” (che peraltro già si stavano verificando per gli esposti durante le gestioni precedenti), sottolineano i giudici, ricordando anche come la pericolosità dell’amianto “era patrimonio conoscitivo comune nella comunità scientifica e imprenditoriale da ben oltre cinquant’anni”.


Emblema dell’esistenza di questa consapevolezza è per esempio l’organizzazione da parte di Schmidheiny del noto convegno di Neuss (in Germania), dove nel 1976 riunì i più alti dirigenti mondiali del gruppo Eternit e in cui “si preoccupò sin da subito di evidenziare la ‘serietà’ della tematica scientifica e sanitaria, alla quale si capiva come fosse inesorabilmente legata a doppio filo anche la sorte dell’intero ramo industriale, posto sotto l’attento scrutinio di scienziati, organizzazioni sindacali e governi”. “L’imputato aveva ben chiaro” che l’esposizione all’amianto avrebbe comportato “il rischio di specifiche malattie tumorali, quali i carcinomi polmonari e, in particolare, il mesotelioma”.


La strategia di occultamento
Schmidheiny era anche a conoscenza della “crescente attenzione collettiva (non solo a livello medico-scientifico, ma anche sindacale, associativo, governativo e delle comunità locali)”, in particolare dell’“assidua opera di rivendicazione portata avanti dalle rappresentanze sindacali locali per denunciare le gravi carenze igienico-ambientali dello stabilimento Eternit di Casale Monferrato e richiedere interventi consequenziali”. E quale fu la risposta di Mister Eternit? Quella di approntare una “linea strategica di contrasto alle pressioni, …in massima difesa del materiale, di cui andava necessariamente affermato l’utilizzo sicuro ad ogni costo”, in particolare con il manuale, denominato Auls 76 e redatto pochi mesi dopo il Convegno di Neuss. Una sorta di guida operativa per aiutare i dirigenti locali a rispondere alle possibili contestazioni contro l’amianto da parte di operai, sindacalisti, giornalisti, vicini di stabilimento e clienti, con l’intento di far credere che la produzione e il commercio di manufatti in amianto può continuare senza esporre a serio rischio l’integrità fisica delle persone. «Un documento che si occupa molto dell’amianto e poco della salute, teso a tutelare gli affari di Schmidheiny e a respingere gli attacchi», lo aveva definito il Pm Gianfranco Colace in sede di requisitoria (area ne ha riferito) e che anche i giudici di primo grado considerano un elemento della “strategia difensiva di occultamento” portata avanti da SS “anche nelle condotte successive ai fatti”. In particolare affidando la gestione dell’immagine dell’azienda a una società di pubbliche relazioni di Milano (la Bellodi SA), che ha operato almeno fino al 2005 organizzando una comunicazione professionale volta a occultare la responsabilità di Schmidheiny in vista delle possibili cause giudiziarie (in particolare cercando di tenere la questione a livello locale ed evitando ogni riferimento alla centrale di comando svizzera) e mettendo in piedi una sorta di intelligence per monitorare la stampa così come per spiare le mosse dell’associazione delle vittime di Casale Monferrato e, più tardi, quelle dei magistrati di Torino, da dove è partita la maxi-inchiesta che ha aperto la stagione di processi contro Stephan Schmidheiny. Un’attività quella svolta da Bellodi, “ulteriormente indicativa della consapevolezza del problema amianto da parte di Schmidheiny, oltre che del tentativo di ridimensionare l’impatto pubblico personale di un disastroso fenomeno”, si legge ancora nella motivazione della sentenza.


Un documento che certamente non mette la parola fine al processo Eternit bis, visto che il verdetto verrà sicuramente impugnato davanti alla competente Corte d’Appello di Torino.

Pubblicato il 

14.12.23

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