L'editoriale

Un atto di giustizia per le vittime dell’amianto e per una comunità che ha subito un torto gravissimo, ma anche un esempio per tutto il mondo di come la giustizia possa giocare un ruolo nel tutelare un diritto fondamentale dei lavoratori e dei cittadini, come quello alla salute. Soprattutto quando si è confrontati con la criminalità della grande impresa. Sono i significati che ci sentiamo di attribuire alla recente sentenza della Corte d’Assise di Novara che condanna il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny a 12 anni di carcere per l’omicidio doloso aggravato di centinaia di persone morte per mesotelioma, “colpevoli” di aver respirato le polveri di amianto immesse nell’ambiente dalla fabbrica che lui gestiva in modo scriteriato.


È una sentenza che non fa giustizia fino in fondo, perché, pur affermando che l’imputato è colpevole della strage, egli non deve rispondere per i casi (ormai prescritti) dei morti da oltre 15 anni. Un aspetto molto doloroso per i familiari di queste persone, effetto di una legislazione non adeguata alla tutela delle vittime di questo tipo di criminalità. Ma quella di Novara è anche una sentenza che fa onore alla giustizia italiana e che dovrebbe fare scuola a livello internazionale.

 

A partire dalla Svizzera, la patria dell’Eternit, dove Schmidheiny ha operato e prodotto gli stessi danni, ma sapendo “negoziare” leggi a tutela dei suoi affari e della sua persona: si pensi al processo di abbandono dell’amianto (nel 1990) fatto su misura per l’Eternit o alle norme in materia di prescrizione, che rendono di fatto impossibili un’azione penale nei confronti dei responsabili e molto complesse le cause civili di risarcimento. Non sono altro che garanzie di impunità.


Non sorprende allora che anche dopo questa sentenza si sono letti (soprattutto nei media svizzero tedeschi, da tradizione molti “vicini” all’imputato) i soliti commenti ridicoli, di disprezzo nei confronti della giustizia italiana, accusata di cercare “un colpevole a tutti i costi” e di fare di “Schmidheiny il capro espiatorio”, una vittima insomma.


La Nzz, parlando di “un mulino della giustizia che continua a macinare”, ha persino il “buon gusto” di rievocare l’infelice uscita di Schmidheiny di qualche anno fa, quando dichiarò di provare «odio per gli italiani» e di considerare l’Italia «un paese fallito».


Una narrazione che fa totalmente astrazione dai fatti reali, concreti e documentati emersi in questo e negli altri processi celebrati in Italia, che al di là del loro esito, dell’entità delle pene inflitte, dei capi d’imputazione, hanno dato e stanno dando un contributo, enorme, fondamentale alla ricerca della verità su una tragedia immane e che non può essere insabbiata. Non sappiamo se Schmidheiny un giorno pagherà un conto con la giustizia, se andrà o non andrà in carcere o se sarà graziato ancora una volta dalla prescrizione. Ma sappiamo quello che è stato, i comportamenti avuti dall’imputato e le responsabilità oggettive che gli possono essere attribuite, perché il processo Eternit, soprattutto grazie alla tenacia dei magistrati torinesi che hanno avviato l’inchiesta ormai una ventina di anni fa, è anche un libro di storia.

 

Un libro che rivela come Schmidheiny, perfettamente consapevole dei danni provocati dall’amianto, decise di andare avanti nel nome del profitto, incurante del territorio e delle sorti dei lavoratori e dei cittadini, anzi mentendo loro e lavorando a livello internazionale per occultare le evidenze scientifiche, per influenzare l’evoluzione delle legislazioni nazionali. Un libro di una storia tragica e criminale che certamente meritava di essere ricostruita e scritta e per cui va fatto un plauso ai magistrati e alla giustizia italiana. Indipendentemente da quello che sarà l’esito finale.

Pubblicato il 

22.06.23

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