Stephan Schmidheiny va riconosciuto colpevole di omicidio intenzionale e condannato all’ergastolo, o, «comunque, alla pena ritenuta di giustizia». L’Accusa insiste e (al pari della difesa) ricorre contro la sentenza della Corte d’Assise di Novara del 7 giugno 2023, che ha sì riconosciuto la colpevolezza del magnate svizzero per le morti legate all’attività industriale dell’Eternit di Casale Monferrato, ma riqualificando il reato nel più lieve “omicidio colposo aggravato” e infliggendogli la pena di 12 anni di reclusione. Si va dunque in Corte d’Appello a Torino per il processo di secondo grado, che potrebbe iniziare ancora quest’anno.

 

Mentre i difensori Astolfo di Amato e Guido Carlo Alleva, che avevano annunciato l’impugnazione subito dopo la lettura del dispositivo, si batteranno per l’assoluzione del loro assistito, i Pubblici Ministeri Gianfranco Colace e Mariagiovanna Compare chiederanno dunque la conferma dell’impianto accusatorio, facendo valere “la contraddittorietà” e la “manifesta illogicità” di alcuni passaggi delle motivazioni della sentenza depositata a inizio dicembre (area ne ha riferito qui).

 

La contestazione principale riguarda la riqualificazione giuridica del reato da omicidio volontario con dolo eventuale a omicidio colposo aggravato, il che ha comportato, oltre che un ridimensionamento della pena rispetto a quanto chiesto dall’accusa, l’estinzione per prescrizione dei reati in 199 casi di decesso per mesotelioma (sui 392 oggetto del processo).

 

Una “macroscopica contraddizione” con “l’attenta e dettagliata ricostruzione storica dei fatti” operata dalla Corte presieduta dal giudice Gianfranco Pezone, scrivono Compare e Colace contestando in particolare l’interpretazione che esclude il dolo eventuale, cioè che Schmidheiny, pur a conoscenza dei rischi per la salute dovuti all’esposizione alle polveri di amianto derivanti dal ciclo produttivo dello stabilimento Eternit, abbia scientemente privilegiato le finalità di profitto e le esigenze di produzione rispetto alla salute di lavoratori e cittadini, decidendo di proseguire l’attività, pur nella consapevolezza che ciò avrebbe causato, con certezza o alto grado di probabilità, l’insorgenza di gravi e letali patologie quali l’asbestosi, tumori polmonari e mesotelioma. Un’interpretazione che nella sentenza viene definita “non verosimile, non ragionevole e non aderente ai fatti così come emersi dall’istruttoria dibattimentale”.

 

“Inverosimile e non ragionevole nella presente vicenda è stata invece la condotta dell’imputato”, replicano i Pubblici Ministeri motivando l’impugnazione. Compare e Colace ribadiscono che “i fatti e le circostanze” rendevano “più che chiaro e del tutto prevedibile al prevenuto gli effetti disastrosi della politica aziendale perseguita a fine di profitto a costo di reiterare nel tempo una lunghissima serie di decessi palesemente correlati all’amianto”.

 

“E ciò  ̶  si legge ancora nel ricorso  ̶  non certo per mera trascuratezza ma esclusivamente per un’accettazione consapevole del rischio, … non a caso abilmente manipolata attraverso un’opera di disinformazione circa le conseguenze nefaste dell’amianto”. I due magistrati parlano di una “volontà pervicace e reiterata che sorreggeva in toto l’intento spregiudicato di Schmidheiny di proseguire a tutti i costi nella sua attività imprenditoriale letale”. “Non vi è alcun dubbio”, concludono dunque, che il miliardario svizzero, “si fosse certamente rappresentato l’elevatissima probabilità di cagionare le gravissime conseguenze delle sue azioni”.

 

Quello che emerge dagli atti, sottolineano, non è “affatto il comportamento di un imprenditore negligente bensì di un imprenditore che ha consapevolmente, pervicacemente, cinicamente sacrificato sull’altare del profitto la vita di lavoratori e cittadini residenti e quindi agito con l’elemento soggettivo del dolo eventuale”, sostengono i Pubblici Ministeri.

 

Pubblici Ministeri che della sentenza di Novara contestano anche l’esclusione del nesso di causalità e dunque l’assoluzione dell’imputato per alcune decine di casi, per esempio per i decessi dei figli degli operai (perché non erano loro ma le mogli a lavare le tute da lavoro intrise di polvere) o di vittime ambientali che non vivevano a Casale ma nei comuni circostanti. Se ne tornerà a parlare in aula penale, davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Torino, la città dove questo processo è nato.

Pubblicato il 

13.02.24

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